venerdì 30 giugno 2017


DOMENICA XIII T.O. anno A

 


In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: 37Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 39Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. 40Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

 

Commento

 

IL BRANO di MATTEO 

In questa seconda parte del discorso missionario (la prima parte l’abbiamo letto la scorsa domenica), Matteo mette a fuoco la formazione morale e spirituale dei discepoli che, dopo la  morte di Gesù, erano rimasti dubbiosi e spaventati, ma volevano ricostruire, sia il proprio essere e comportarsi da discepoli, sia la piccola comunità in formazione. Ma, ahimè, quanto sono paurosamente provocatori i pochi versetti che leggiamo oggi! Sono impressionanti per la durezza dei termini, per la [non vorremmo usare questo termine] pretesa di Gesù di convogliare su di sé le energie vitali e affettive di ogni discepolo: Egli non accetta compromessi né un amore a metà. La frequenza martellante (sette volte), quasi ossessiva, del pronome in prima persona me, sembra voglia comunicare, anche sul piano linguistico, la Sua esigenza di costituire il tutto nella vita dei suoi discepoli. Agostino di Ippona commenta: Egli solo ti basta e nient'altro senza di Lui ti può bastare.
Si tratta di vivere l'appartenenza a Lui, radicata nel Battesimo, nel modo raccomandato da Paolo nella seconda lettura proposta dalla liturgia: Siamo morti con Cristo...sepolti insieme con Lui nella morte. L'immersione nell'acqua (del battesimo) simboleggia il morire e essere sepolti con Cristo a tutta la realtà del peccato, da cui si è liberati radicalmente.
Ma, premettiamolo subito, in tutto il vangelo Gesù non aveva mai inteso favorire alcun fondamentalismo religioso; basti ricordare l’evento nell’orto del Getsemani, quando Pietro estrae fisicamente una spada per difendere Gesù e Lui si oppone decisamente.
La proposta di Gesù, presente solo nei tre sinottici e mai in Giovanni, appare in tutti i vangeli soltanto cinque volte, e viene espressa sempre per sciogliere l’equivoco di una sequela di Gesù all’insegna del trionfo.
Eppure una domanda sorge, però, spontanea alla lettura della pericope: è mai possibile che il Gesù mite e umile di cuore che invitava a porgere l’altra guancia, all’amore come legge fondamentale e primo Comandamento, esorti – per essere suoi discepoli – a odiare padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e persino noi stessi?
La spiegazione di tanta durezza nelle affermazioni sconcertanti attribuite a Gesù è da cercare nel sottofondo linguistico che talvolta affiora nel testo greco dei Vangeli. La lingua usata nella stesura è quella dominante nell’Impero Roman; ma in essa compare in filigrana la matrice della lingua originaria degli autori e, in particolare per le frasi di Gesù, l’originale aramaico con cui egli si esprimeva. Ebbene, in ebraico e aramaico non si ha il comparativo, ma si usano solo le forme assolute. Così, per dire amare meno si adotta l’estremo opposto all’amare, cioè l’odiare.
Quel che Gesù chiede ai Suoi è un impegno forte, il distacco senza il quale non è possibile perseguire un orientamento radicale verso di Lui e il regno di Dio. Per esprimere questa esigenza, Egli non esita a ricorrere al paradosso. E i discepoli impareranno che in quelle espressioni intense di stile orientale, c’è anche una verità che si attua con la testimonianza del martirio. E’ bene ricordare che questa corsia preferenziale per Dio era prevista anche nella tradizione rabbinica, la quale raccomandava di dare precedenza al rabbino sul padre.
Sembra che il verbo usato da Matteo (bale‹n= balein=gettare) indichi che Gesù non porge il suo Vangelo ‘con i guanti’, che, piuttosto, lo getti senza tanti convenevoli, come un sasso nello stagno o - come scrive Marco (4,26) – nello stesso modo in cui si getta a terra il seme.
Un’esegesi più approfondita chiarisce con efficacia il significato di questo passo evangelico, tra i meno compresi nella storia del Cristianesimo.
L’affermazione radicale di seguire senza mezzi termini Gesù che porta la croce, nella storia del cristianesimo ha finito per alimentare una spiritualità doloristica che nulla a che vedere con la chiamata alla gioia che contraddistingue la buona notizia, e che svilisce la portata delle parole di Cristo, riducendole a un banale richiamo a sopportare con rassegnazione le sventure della vita.
Il prendere la propria croce e perdere la propria vita, nell’autentica prospettiva di Cristo, hanno tutt’altro significato. Quello di smettere di considerare se stessi come misura delle cose e come artefici della propria vita; di mettersi completamente nelle mani di Dio e accettare pienamente la logica dell’amore,  anche quando la fedeltà a questo amore può – proprio come nel caso di Gesù – costare la vita.
Dunque, è da ribadirlo, prendere la Sua croce non significa accettare le tribolazioni accidentali della vita, ma prendere su di noi il Suo progetto di vita, calandolo nelle circostanze storiche, pubbliche e private. Significa non preoccuparsi di se stessi, non cercare se stessi, non mettere mai in bilancio ciò che torna utile a me e al mio gruppo di appartenenza. Siccome esistono delle predilezioni che costituiscono una necessità nella propria vita, prendere la croce di Cristo significa collocarle fuori dal quadro delle predilezioni codificate; prediligere la compagnia di quelli che contano meno, stare insieme a coloro che non hanno capacità di dare ampie consolazioni, che non ci rassomigliano.
Sta in questo atteggiamento la vera libertà umana.
Una riflessione ancora più approfondita porta a confrontare l’esigenza evangelica e quella della più raffinata concezione laica, di impronta psicologica. Commenta bene J.Ratzinger: L’autentico seguace di Gesù ripudia la mentalità dell’autosufficienza e accetta che la propria esistenza sia plasmata da Dio, in una sorta di creazione continua che dalla nascita prosegue sino alla morte. Il che rappresenta la quintessenza di quello che la Bibbia chiama peccato originale: da non intendere come evento storicamente avvenuto, ma come tentazione costitutiva dell’animo umano, sempre attratto dalla prospettiva di fare a meno di Dio e di agire, se ritenuto necessario, anche contro Dio.
Qui si evidenzia l’enorme distanza che separa lo spirito evangelico dal pensiero laico, il quale, proprio dell’autorealizzazione voluta e attuata con le proprie forze fa uno dei capisaldi più nobili della vita umana. E qui il dialogo fra le due istanze – la cristiana e la laica -  si fa difficile, se non impossibile, e non resta che il reciproco rispetto, nella diversità delle prospettive.
ALTRO PASSAGGIO: Gesù porta la spada della separazione fra il bene e il male, fra coloro che accolgono il suo messaggio e quelli che lo rigettano; ma porta anche la spada della determinazione. Rispondere alla chiamata di Cristo richiede un taglio, molto spesso doloroso, con l'ambiente, con la stessa famiglia.
La spada-divisione è implicita nelle esigenze della presenza di Gesù; lo stesso messaggio porta alla divisione: esige che nessuno e nulla sia al di sopra di Lui nella scala dei valori. Infatti quel che è da temere è un cristianesimo tanto inoffensivo da non creare più difficoltà a nessuno, oppure un cristianesimo che non feconda più nulla, perché è stato così snervato da non essere più capace di stupire, di creare poesia o anche di creare scandalo, o almeno provocazione e sfida nei riguardi del mondo.

Infine Gesù preannuncia ai discepoli in missione che potranno contare anche sull’accoglienza da parte di uomini e donne che vedranno in loro dei profeti, dei giusti, dei piccoli. Costoro avranno una ricompensa grazie al loro discernimento e alla loro capacità di accoglienza: nel giorno del giudizio, certamente, ma anche già qui e ora, cominciando a sperimentare il centuplo sulla terra.

E per noi, spaventati dall'impegno di dare la vita e di avere una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca… non perderà la sua ricompensa.

La croce e un bicchiere d'acqua!, il dare tutta la vita e il dare quasi niente! Sono i due estremi di uno stesso movimento. Un gesto che chiunque può compiere; però un gesto vivo, significato da un aggettivo dal sapore evangelico: fresca. L’acqua deve essere fresca: vale a dire procurata con cura, l'acqua migliore, quasi un'acqua affettuosa, con dentro l'eco del cuore. Stupenda pedagogia di Cristo! Non c'è nulla di troppo piccolo per il Vangelo, perché nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco in Dio. L’essere umano guarda le apparenze, Dio guarda il cuore.

Un’ultima prospettiva per il discepolo in Matteo: Gesù lo carica di un compito altissimo: fare discepoli tutti i popoli. Un compito dall’orizzonte infinito… Il discepolo deve, così, diventare maestro, che ripete il modello del maestro, l’inviato che diventa inviante.

La motivazione di questa visione non proviene da un ulteriore comando esterno al discepolo, ma da profondità viscerali: Quando qualcuno si convince della ricchezza della Parola di Dio, non può tenerla per se stesso, perché essa trabocca, esonda, vuol raggiungere gli altri e non per convertirli al proprio credo ma per sollecitare incontri fecondi, nonostante le culture diversissime.

Il cristianesimo sarà universale se esso, seduto accanto ad altre religioni di altre culture, imparerà da tutti, uscendo fuori (anzitutto mentalmente) da zone umane chiuse e protette.

 

Riflessione personale

Sì, il vangelo va letto attraverso l’esegesi di Autori-studiosi, ma – è mia convinzione - non si può restare aggrappati nemmeno alla più profonda interpretazione. Infatti siamo di fronte, non ad una dottrina, bensì alla Parola di Dio che traspare dietro le parole e si rivela alla mente  ed al cuore attraverso la preghiera, quale vero alimento della vita spirituale e rivelazione non fatta di parole.
Gli esegeti migliori sono quelli permeati interiormente della Parola di Dio, che sanno parlare senza nessuna delle parole inutili che sanno di ammaestramento. Essi, giunti attraverso tanto scavo al non detto, lasciano il lettore dentro lo scavo stesso, perché ora spetta a lui, incontrare la Verità.

 

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Esegeti consultati: A. Grün, R. Brown, J. Ratzinger, G. Ravasi, J. Beutler, J. Stott, J .Dupont, E. Bianchi, L. Manicardi, M.J. Castillo, ecc. 

 

Consigli al femminile:

M.Cerini, Dio Amore nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich.

Gabriella Zarri, Finzione e santità, Rosenberg& Sellier, Torino 1991

Elena Lowenthal, Eva e le altre

L’Autrice si lascia impregnare dalla Parola di Dio con lo sguardo del cuore, nella zona di confine tra il divino e l’umano. E  lo fa con naturalezza.
Una citazione dalla pagina 188: Nella Bibbia, il silenzio è la musica di una teofania minore [quale è quella femminile]. Dio parla a Mosè dentro un roveto che ardendo non può fare a meno di crepitare fastidiosamente, rimbomba nel tuono di un mare che s’apre conducendo i figli d’Israele fuori dalla schiavitù dell’Egitto, con voce stentorea rivolge ad Abramo i suoi mille, impossibili comandi. Urla per bocca di tanti profeti attanagliati dalla disperazione. Questa rivelazione che tace sottile è forse la cosa più sincera fra tutte quelle che Dio ha elargito all’uomo attraverso la Bibbia”.

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