venerdì 28 ottobre 2016

DOMENICA XXXI T.O. anno C


DOMENICA XXXI T.O. anno C

 

Lc 19.1-10

 

In quel tempo, Gesù 1entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

COMMENTO

Il vangelo di Luca riserva grande importanza al lungo viaggio compiuto da Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, e narra le parabole raccontate da Gesù, tutti gli episodi e gli incontri avvenuti durante il cammino.

L’ultima tappa prima di entrare in Gerusalemme è Gerico, città sul confine con la Perea in cui si realizzava il dazio. E qui un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, è protagonista dell'episodio narrato nella pericope di oggi. Episodio interessante e ritratto dalla realtà, a differenza delle parabole raccontate a scopo didattico.

La tesi che l’evangelista sottopone davanti ai lettori della sua comunità (e, di conseguenza anche  a noi) è: a Dio è possibile salvare il ricco quando incontra Cristo e viene toccato dalla grazia. L´amore di Gesù va più in là dei peccati; si sommerge nella profondità del cuore e risveglia ciò che di umano è nascosto in ogni persona.

E' da notare che lo stesso argomento è trattato all'inizio del ministero di Gesù e questo di Zaccheo è posto alla fine. Si tratta di due quinte che racchiudono la predicazione di Gesù, indicandone così le intenzioni principali: cercare e salvare ciò che era perduto.

Di Zaccheo (nome ebraico, zakkai, che significa puro, giusto) Luca non fa un ritratto morale, bensì una presentazione esteriore. Afferma  che è capo dei pubblicani, architelones, un termine che non esiste altrove nella letteratura greca dell'epoca; forse, commentano gli esegeti, lo ha coniato Luca stesso per sottolineare l'importanza da attribuire all'episodio.

Zaccheo cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Egli deve superare un ostacolo fisico per vedere da vicino Gesù. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Come non cogliere in questo particolare una sottile inquietudine, unita alla speranza che l'incontro con il Maestro porti qualcosa di nuovo nella sua vita?

Ed ecco: a questo punto la scena cambia. Siamo a una svolta. Finora dominavano i verbi di movimento: attraversare, passare, correre, salire... La serie viene interrotta. Gesù viene incontro al desiderio di Zaccheo e gli dice: devo fermarmi a casa tua.

Se Gesù avesse detto: «Zaccheo, ti conosco bene; se restituisci ciò che hai rubato verrò a casa tua», egli sarebbe rimasto sull'albero. Se gli avesse detto: «Zaccheo scendi e andiamo insieme in sinagoga», sarebbe avvenuta la stessa cosa. Invece il pubblicano di Gerico ha incontrato lo sguardo di Gesù che lo rivela a se stesso e il suo cambiamento è istantaneo.

L'episodio si presenta come una scena tipica del tempo messianico. Gesù precede (primerìa, dice il Papa), non disdegna il cuore indurito di un ladro che, probabilmente, non è fiero della sua vita, ma è imprigionato nel proprio ruolo.

Citando ancora il Papa, Gesù è uno che va nelle periferie esistenziali, si muove cercando chi si è allontanato e si è perduto. Per la folla Zaccheo è solo un pubblicano che si era arricchito grazie alle occasioni per farlo a danno degli altri. Per Gesù è un uomo con un nome, che è oltre i suoi sbagli; e ora gli viene restituita la dignità morale perduta.

Il versetto 6 - Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia - è forse il più bello della pericope; da non commentare, da ascoltare nel proprio cuore. Sintetizza la trasformazione interiore, il sì alla grazia che ha già operato così come capita a chi attende segretamente di rinnovarsi dentro.

Zaccheo si mette ritto in piedi, prendendo la posizione dell'oratore (formulazione tipicamente lucana). La sua dichiarazione corrisponde pienamente all'ideale comunitario di Luca. Il gesto del pubblicano – riparare il maltolto con un grande gesto di generosità - è segno di autentica conversione e condizione permanente per chi vive la vita di comunione ecclesiale.

Gesù conferma: Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch'egli è figlio di Abramo.

Ma la gioia del versetto precedente è raffreddata dalla reazione dei presenti. Nel banchetto di Levi (Lc 5.30) e nell'introduzione al cap.15 c'era qualcuno che brontolava; ora tutti brontolano. Non è direttamente il pubblicano che viene giudicato, ma il comportamento di Gesù che entra in comunione con i peccatori. Il termine tutti è volutamente caricato. Esprime forse una costatazione globale dell'evangelista: il comportamento di Gesù di fronte agli emarginati è la causa del suo rigetto da parte dei Giudei.

La risposta di Gesù non è diretta a Zaccheo, ma ai presenti che mormoravano, e giustifica di fronte ai giudei ligi alla Legge la sua venuta in casa del pubblicano; come a dire: “la salvezza è destinata anche a questo peccatore perché egli è giudeo, membro del popolo eletto ed erede delle promesse divine fatte ad Abramo”.

Il legame tra salvezza e discendenza di Abramo riflette la prospettiva iniziale della evangelizzazione.

Anche la sentenza conclusiva - v.10 Il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto - è formulata in termini che le danno un peso speciale: in essa si esprime la coscienza profetica del Figlio dell'uomo di essere inviato verso ciò che è perduto. Agli occhi dell'evangelista, la parola sintetizza il senso del ministero pubblico: la ricerca del peccatore da salvare.

Una citazione da don Mazzolari: Io posso anche non vedere il Signore: lui mi vede sempre, non può non vedermi. Io posso scantonare, lui no. L’amore si ferma sempre e viene inchiodato dalla pietà. Io guardo e mi scandalizzo, guardo e giudico, guardo e condanno, guardo e tiro diritto: lui mi guarda, si ferma e si muove a pietà.

Voglio però concludere con una quartina del salmo che oggi si legge nelle nostre chiese. Vi è un qualcosa di più; qualcosa che è l’espansione e l’apice della grazia, destinata, non solo ai “figli di Abramo”, ma a tutte le creature.

Il salmista, usando il termine creature, coinvolge l’intero creato nell’opera di redenzione; e parla anche di tenerezza!….

 

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

venerdì 21 ottobre 2016

DOMENICA XXX T.O. anno C


DOMENICA XXX T.O. anno C
 
Lc 18.9-14
 
In quel tempo, Gesù 9disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
COMMENTO
Le parabole sono i gioielli del vangelo di Luca.
Quelle che stiamo leggendo da alcune domeniche gli sono proprie, cioè non hanno riferimento con gli altri evangelisti.
La parabola di questa domenica è, a prima vista, la più facile da capire: ruota sul contrasto tra il fariseo tutto pieno di sé, e il pubblicano che si affida solo a Dio.
Il primo si rivela sicuro, contando nella sua osservanza rigorosa che gli può meritare la ricompensa divina; il secondo, pubblicano [cioè addetto alla riscossione dei tributi in nome dell’impero romano], anche se riconosciuto come pubblico peccatore, conserva nel suo cuore l’unico spiraglio di certezza fiduciosa nel perdono divino.
Entrambi hanno una cosa in comune: pregano. Ed entrambi, per pregare, salgono al tempio.
Pregano, ma nella maniera opposta. Forse non sanno che la loro preghiera rivela qualcosa che va oltre se stessa: riguarda il loro modo di vivere, la loro relazione con Dio, con se stessi e con gli altri.
Il fariseo sta in piedi, nella posizione di chi è sicuro di sé, e fa nel suo cuore (Luca usa l’espressione pròs heautón, cioè tra sé e sé) una preghiera che vorrebbe essere una lode, un ringraziamento a Dio, ma che è ambigua: può essere una sorta di monologo, quasi un rivolgersi a se stesso, oppure può connotare il suo restarsene solo in disparte, accentuando così la sua sdegnosa separazione dagli altri.
La frase ti ringrazio perché…, consiste di parole stranamente molto simili a quelle che lo stesso Luca aveva riportate nel cap.10 come pronunciate da Gesù: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché…”. Questo perché è molto diverso: se Gesù rende lode al Padre per i doni del suo amore, il fariseo fa un panegirico del suo io. Annota con finezza Agostino: “Era salito per pregare, ma non volle pregare Dio, bensì lodare se stesso”.
Colpisce che nel Talmud (raccolta di discussioni tra sapienti e maestri rabbinici del giudaismo) vi sia un testo esattamente parallelo alle parole di questo fariseo.
Si faccia però attenzione: ciò che Gesù stigmatizza nel fariseo non è la sua osservanza e il suo compiere opere buone, ma il fatto che egli non attende nulla da Dio, non ha nulla da chiedergli. Invece sappiamo che Dio non guarda i meriti delle persone, ma i loro bisogni.
A questo punto qualcuno potrebbe dire che questa parabola è ingiusta perché di fatto uno è bravo anche se presuntuoso, e l’altro è peccatore. Ma Gesù racconta questa parabola, non per una categoria di persone, bensì per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. Per questi vale l’ammonimento: non è sufficiente non fare il male per essere giusti; non basta osservare la legge e i comandamenti. Abbiamo tutti bisogno della misericordia del Signore, della sua grazia, della sua amicizia, della sua forza. Ciò che ci rende giusti é l’espansione della sua misericordia a noi; ed allora anche il nostro cuore ne partecipa,  diventa compassionevole, buono.
Tuttavia Luca, in questa pericope, non si limita al tema della preghiera, ma affronta anche, nell’ultimo versetto, il quattordicesimo, il tema della giustificazione [appropriazione della grazia di Dio, il quale applica i meriti di Gesù a chi confida in Lui], mettendo in rilievo quale deve essere l’atteggiamento per ottenerla.
Il versetto si apre con un solenne preliminare: Io vi dico. Si tratta di una dichiarazione conclusiva, e per questo acquista un peso morale ragguardevole; contiene il principio stesso della giustificazione. La via per raggiungerla è indicata nel comportamento del pubblicano, il quale, dunque, funge da via maestra e paradigmatica per i nuovi credenti.
E’ vero, forse c’è anche una punta sottile di polemica contro il mondo giudaico e contro i giudeocristiani giudaizzanti. Luca è l'evangelista del mondo dei pagani, di quelli che erano ritenuti dai giudei dei ‘cani’, degli impuri, degli esclusi dalla salvezza. Per questo presenta un Gesù che taglia netto col passato, a partire dal fatto di sentirsi depositari della Legge di Mosè. L’evangelista vuole invece evidenziare il come la giustificazione è ottenuta; e pone quale modello chi, pur essendo pubblico peccatore, si rimette nelle mani di Dio, riconoscendo in Lui l'unica fonte della propria salvezza.
È probabile che Luca, seguace e discepolo di Paolo, nonché suo ammiratore (a lui ha dedicato gli Atti degli Apostoli), avesse presente il tema della giustificazione da lui elaborato, ed avesse ritagliato in tal modo questo stupendo quanto piacevole raccontino, che in ultima analisi si rifà proprio al tema paolino della giustificazione ottenuta per grazia e non per meriti.
La seconda parte di quest’ultimo versetto, dai toni sentenziali e sapienziali, è stata mutuata dalla parabola degli invitati a nozze che cercavano i primi posti. Ed è parenetica (di ammonimento): invita all’umiltà.
Personalmente la trovo una citazione inappropriata. D’altra parte non si è sicuri se quest'ultima sentenza sia stata aggiunta dalla tradizione o da Luca stesso.
Non è cosa giusta e da accettare passivamente che gli altri ti umilino. E’ cosa buona e giusta essere umili, non umiliati. E l’umile non spera di essere esaltato.
Un’osservazione personale.
1) E’ rigida la sicumera del fariseo. Ma il suo atteggiamento non è insolito nemmeno oggi.
Sono parecchie le persone che dicono di pregare e mai, o quasi mai, varcano la soglia di una chiesa. Considerano estraneo al loro modo di sentire tutto ciò che sa di rituale, avvolto come appare nel guscio di una celebrazione esteriore, tristemente fredda. Do anch’io ragione ai critici del ritualismo. Ma il rito è, sì, una preghiera esteriore; eppure, in quanto celebrazione corale, unisce gente di ogni tipo, dal poveraccio ai grandi della terra: tutti accomunati dal bisogno di…ALTRO; forse di partecipazione emotiva; o meglio di qualcosa che nasce dal profondo del cuore o dal vuoto che si annida in esso.
Dico a me stessa: non è segno di scarsa umiltà fidarsi di una preghiera solitaria, senza mescolarsi agli altri?
 

Dal Sal 33 (che si recita oggi)


Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia.

domenica 16 ottobre 2016

XXIX DOMENICA T.O. anno C


XXIX DOMENICA T.O. anno C

Lc 19.1-8 

In quel tempo, 1 Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2 «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3 In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4 Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5 dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 6 E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7 E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8 Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
 
Commento
Il brano del vangelo di Luca proposto dalla liturgia di questa domenica pone al centro della nostra riflessione la preghiera di domanda.
La parabola  del giudice il quale soccorre soltanto per togliersela dai piedi la vedova che lo importuna perché le sia fatta giustizia, sorprende quando Luca mette nella bocca di Gesù una frase sconcertante: v.6 Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto; e cioè come a via di chiedere, la vedova è ascoltata da un giudice disonesto, così avviene a chi persevera nel chiedere aiuto a Dio. Il che sarebbe in contrasto con la frase del Vangelo secondo Matteo, in cui Gesù dice: Non moltiplicate le parole, Dio sa già ciò di cui avete bisogno.
Questa discordanza tra i due non deve meravigliare: poche volte il singolo evangelista scrive di suo pugno; qualche altro redattore trascrive i ricordi lontani della vita di Gesù, raccolti da diverse fonti e dai risultati dell’elaborazione fatta nella comunità.
L’aspetto più chiaro che appare nella strana parabola è l’importanza fondamentale della preghiera di petizione. Non è da dimenticare che Luca è preoccupato per il fatto che, in un tempo di persecuzione, i discepoli possano essere propensi a scoraggiarsi. La parabola viene applicata alla loro situazione di disagio; essi si identificano con la vedova, la quale nell’antichità era modello delle persone meno protette ed abbandonate dalla società e, di conseguenza, desideravano ottenere giustizia di fronte ai persecutori. Tuttavia, di fronte al trascorrere del tempo senza che la situazione cambiasse, potevano spazientirsi come la vedova (v.7 Li farà forse aspettare a lungo?).
Ma il giudice disonesto non è Dio. Egli non ascolta perché sollecitato dalla molestia delle insistenze. Bisogna stare attenti a non equivocare, paragonando il giudice disonesto a Dio!
Agostino si domanda se Dio ha bisogno delle nostre preghiere e risponde a questo quesito: No, siamo noi a essere nella necessità di rivolgerci al Signore. Siamo fatti per Dio e non lo sappiamo. Il nostro destino è spezzettato in mille frantumi che ci attirano verso le persone, cose, situazioni, nelle quali riponiamo la nostra attesa di felicità, ma che sono più piccole del nostro cuore che è fatto per il sommo Bene.
L.Ferrajoli afferma: il Diritto è veramente diritto quando è la legge del più debole, e non è la legge che protegge il più forte.
Stando così le cose, si comprende perfino l’attualità di questa parabola.
Luca ha a cuore il tema della giustizia sociale. All’inizio del suo vangelo, nel Magnificat, inno di lode messo in bocca a Maria e a Elisabetta, c’era scritto che il Signore ha disperso i superbi, ha rovesciato i potenti dai troni, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote.
La povera vedova che chiedeva giustizia al giudice ingiusto, è l’immensa marea dei poveri della terra i quali, giocandosi la vita, cercano, disperati, le cose e le frontiere di Europa e degli USA, protestando per avere i diritti negati. E come loro siamo in qualche modo anche noi, quando ci sentiamo scomodati dall’affollarsi di questa gente che ci appare estranea alla nostra mentalità.
Quanto al comportamento di Dio quando lo supplichiamo, cerchiamo di capire meglio.
Ne usciremmo delusi se trattassimo il Dio pregato ad oggetto da piegare alle nostre angustie. La preghiera è tutt’altro. E’ lo spazio dove il nostro desiderio si allarga all'infinito, fino a diventare amore puro e disinteressato.
Sono tante le diramazioni del nostro desiderio che dobbiamo ricondurre all'unità dell'unico Bene.
Pregare è talvolta gridare al Signore il nostro desiderio irrimediabilmente sbriciolato, e insieme aprire il nostro cuore perché diventi capace di vedere il Bene offerto proprio in quella situazione, senza la pretesa di vederla scomparire con un colpo di bacchetta magica, ma restando sotto il suo sguardo per trovare solo la forza di starci dentro, di starci assieme a tutti i disperati del mondo.
La domanda finale di Gesù: Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? può sembrare pessimista e fuori posto. Ma il vangelo va letto con saggezza e soprattutto nella predisposizione a cambiare qualcosa nella nostra vita. Qui ci interpella con forza a pregare con fede pura.
Introducendo il titolo di Figlio dell'uomo (espressione che nel libo di Ezechiele ricorre più di 90 volte; Dio si rivolge al profeta chiamandolo Figlio dell'uomo), Luca si aggancia alla piccola apocalisse scritta da lui stesso al cap.17, e col tema della fede si ricollega a quello della preghiera incessante. Dal confronto emerge che fede e preghiera ottengono un orientamento escatologico (= riguardante le realtà finali). La preghiera è ciò che mantiene viva la fede del credente nel tempo che lo separa dal ritorno del Figlio dell'uomo. Per fede qui si intende l'esistenza del cristiano vissuta nella vigilanza e nella fedeltà; fedeltà al Vangelo che viene mantenuta nel momento della prova. Davanti all'attesa della Parusia (letteralmente ‘presenza’, ma qui significa ‘venuta’) Luca pone l'attenzione non su cosa avverrà, ma sulla prontezza dei cristiani a riconoscerlo e ad accoglierlo alla fine dei tempi. In ultima analisi per  Luca la preghiera è l'atteggiamento necessario nel tempo che precede la Parusia (letteralmente ‘presenza’, in senso biblico ‘venuta’ del momento definitivo quale è la fine del mondo) e coincide con tutta la vita cristiana, segnata dalla certezza dell'intervento di Dio, il quale non mancherà se siamo vigilanti e perseveranti nella fede.   
Ma Dio esaudisce le preghiere?
Rispondiamo con Bonhoeffer: Dio esaudi­sce sempre, ma non le no­stre richieste, bensì le sue promesse.
Forse la semplice, lapidaria conclusione che dobbiamo trarre dalla lettura di questo brano è: preghiamo pure per le nostre angustie, ma chiediamo nello stesso tempo di essere trasformati. Allora vedremo le stesse angustie sotto un’altra angolatura.

venerdì 7 ottobre 2016

Domenica XXVIII T.O. anno C


Domenica XXVIII T.O. anno C
 
Lc 17.11-19
11 Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12 Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13 e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14 Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15 Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16 e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17 Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18 Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19 E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
 
Commento
 
PREMESSA
Siccome la nostra lettura del testo del vangelo domenicale vuole essere un abbozzo di approfondimento, prestiamo attenzione all’ambientazione così come la pone Luca. Egli si riferisce al Gesù prima della sua morte, in cammino verso il luogo della quale, Gerusalemme, si dirige nel suo ultimo viaggio; e intanto nelle soste si comporta da Maestro e talvolta anche da guaritore. Nello sfondo c’è sempre variamente presente la folla.
Gesù, essendo giunto il tempo di dichiarare e dimostrare pubblicamente che è il Messia tanto atteso nel mondo giudaico, si preoccupa di smontare molti pregiudizi legati alla sua figura, dovuti quasi sempre ad una mentalità ligia alla lettera della Legge. Mentre una parte di ebrei non sa vedere oltre le barriere di adempimenti legalistici minuziosi, dentro le quali se ne sta rinchiusa, Egli vuole aprire nuove prospettive sullo spirito della Legge e prefigurare una concezione universalistica della religione, slegata da ritualismi miopi e da un’osservanza fine a se stessa.
LA NARRAZIONE DELL’EPISODIO NELLA PENNA DI LUCA
La guarigione del lebbroso fa coppia con quella del paralitico. In essa si fa luce il motivo per cui Gesù opera guarigioni. Queste debbono essere segno di una liberazione più profonda, tesa a testimoniare il compimento delle promesse messianiche (tutte da reinterpretare).
Tra i malati incontrati da Gesù vi sono dei lebbrosi: la loro guarigione è narrata solo dai sinottici; e noi la leggiamo nella versione di Luca perché è l’evangelista che la liturgia ci fa seguire da vicino durante quest’anno liturgico.
Anzitutto va ricordato che, se per noi il termine lebbra designa una malattia classica, per la Bibbia essa si estende ad abbracciare un'ampia serie di affezioni cutanee, che divengono una sorta di marchio visibile, non solo della malattia, ma anche della vergogna ad essa connessa. Nell’Antico Testamento, infatti, la lebbra è un castigo divino a causa dei peccati commessi: Maria, sorella di Mosè, diviene lebbrosa a seguito del suo peccato di mormorazione; Davide invoca la lebbra sulla casa di Joab come castigo per l'omicidio da questi commesso; in Deuteronomio la lebbra è elencata fra le maledizioni rivolte al popolo di Dio se non obbedisce alla sua voce; ecc.
Ai tempi di Gesù il lebbroso è ancora espropriato della sua identità personale: incute paura perché può contagiare gli altri e perciò è abbandonato dai familiari, evitato ed emarginato dalla società, la quale lo costringe a vivere in luoghi distanti dai centri abitati e, per quanto riguarda la sfera religiosa, escluso dalla partecipazione alla vita cultuale, alla quale potrà essere riammesso soltanto quando i sacerdoti ne avranno constatato la guarigione.
= Luca evita, nel racconto, i tratti troppo umani di Gesù su cui invece si sofferma Marco. Eppure la scena descritta presenta particolari interessanti. Ne facciamo un breve accenno. Anzitutto il fatto si svolge in un villaggio, luogo per nulla propenso ai cambiamenti, e i lebbrosi che vanno da Gesù sono dieci. Questo ed altri particolari non riproducono esattamente la verità storica; ad esempio  dieci lebbrosi sono un numero sproporzionato rispetto ad un villaggio. La veridicità del testo è sempre da cercare nel significato delle parole e nel contesto preso nel suo insieme. I lebbrosi restano a doverosa distanza come imponeva la Legge, e perciò tutti e dieci, per farsi ascoltare, gettano un ponte verso Gesù con un grido: Gesù, maestro, abbi pietà di noi! il grido è forse l’unica preghiera che può uscire dalla bocca degli esclusi. Gesù - li vide – e il suo sguardo segna una svolta decisiva nella loro vita. Egli si limita a dare l’ordine di andare a presentarsi ai sacerdoti. Ed essi, certamente consci di essere stati guariti, vanno dai sacerdoti per la purificazione legale di riabilitazione sociale.
E’ qui che occupa la scena quell’unico che torna indietro dal guaritore.
= E’ chiaro che Luca, da educatore della sua comunità, vuole insegnare, attraverso questa guarigione,  quale deve essere l'atteggiamento del guarito: guarito da limiti e debolezze umane, oltre che da menomazioni corporali.
L’episodio del lebbroso guarito serve molto a spostare l’attenzione dal miracolo allo scopo che questo speciale guaritore si propone. Se la malattia a volte incattivisce, isola, porta a una sfiducia radicale verso gli altri e la vita, invece l'uomo samaritano, quindi eretico, mostra, non solo volontà di vivere e fiducia in Gesù (il suo non è un atto di semplice riconoscenza, quasi di galateo), ma anche apertura alla fede.
Una esegesi corretta deve far cogliere nel gesto del guarito la luce nuova da cui è investito. Egli ha intuito in maniera sorprendente, per primo, che Dio ha inviato colui che i profeti hanno annunciato, colui che apre gli occhi ai ciechi e le orecchie ai sordi, che fa camminare gli storpi, risuscita i morti e sana i lebbrosi (Lc 7,22). Ha intuito che ci si può comportare in maniera opposta a ciò che impongono tanti vincoli sociali inutili se non dannosi. Inoltre l’evangelista attraverso il comportamento del lebbroso, vuole comunicare un messaggio di gioia: gli impuri, gli eretici, gli emarginati (compresi noi che siamo pigri nell’ascolto della Parola-che-salva) non vengono mai allontanati da Dio; possono giungere a Lui in modo più autentico di tanti che si trincerano dietro le proprie sicurezze.
= Infine, se leggiamo la Parola di Dio seriamente, poniamoci la domanda: in ultima analisi cosa è la fede? e cosa è la salvezza?
La  fede nasce dalla preghiera. Il lebbroso tornò indietro lodando Dio a gran voce. Il suo grido non è di disperazione, e non è solo di riconoscenza. E’ di lode. La lode qui è assertiva e si sprigiona da un cuore il quale riconosce che tutto viene da Dio. E’ lode-preghiera, disinteressata, certamente da coltivare da soli e con gli altri, in chiesa e ovunque.
La salvezza è la liberazione che Dio concede a chi non si ripiega su stesso… Non si tratta solo di un fenomeno spirituale, tanto meno psicologico, ma di cambiamento continuo verso la purificazione. Essere puri significa rimuovere gli ostacoli all’amore di Dio e del prossimo.
I nove giudei sono stati guariti, l’eretico è stato salvato: la differenza è abissale. Nel primo caso si tratta di un recupero della salute a livello fisico; nel secondo di un rinnovamento totale, sia della pelle purulenta, sia di tutta la persona, esteriore ed interiore.

sabato 1 ottobre 2016

DOMENICA XXVII T:O. anno C


DOMENICA XXVII T:O. anno C



Commento

 

Questa volta ad interrogare Gesù sono gli apostoli. Chiedendogli di aumentare la loro fede, essi riconoscono la loro fragilità di credenti e dimostrano di non aver chiaro il concetto di fede.
L’aumento della fede potrebbe riguardare un concetto di fede di ordine intellettuale da tradurre in una dottrina. Ma Gesù pone la fede su un piano che non è quantitativo, bensì qualitativo. Essa richiede un atto di fiducia, di affidamento nel Signore. Si tratta di offrire a Dio le stesse debolezze umane e perfino la propria incredulità, in modo da lasciare che sia Lui a vincere dubbi e perplessità.
La risposta di Gesù corregge la domanda. Egli, come è solito fare, usa, da sperimentato didatta, una metafora: quella del granello di senape, tradizionalmente indicata quale immagine del Regno di Dio. E alla metafora aggiunge un paradosso: per essere grande, la fede deve restare piccola.

Una breve riflessione sul perché.
La fede non è fondata sul merito. Di questo ci si può inorgoglire; invece l’efficacia è assicurata quando non si conta su se stessi, bensì nell’aiuto di Dio di cui ci si fida. È vero, la nostra fede è sempre a breve respiro, ma basta avere quel piccolo seme dell’adesione alla potenza dell’amore di Dio, e la grazia di essere vero discepolo di Cristo si realizza.
Credere significa seguire Gesù, camminare dietro di lui. Se vacilliamo, sappiamo che lui è pronto a soccorrerci, a farci rialzare per stare sempre là dove è lui. Però dobbiamo aver cura di questo piccolo seme, ed esso, seminato dentro di noi, crescerà senz’altro.
= La risposta di Gesù agli apostoli prosegue con una parabola che li riguarda da vicino, in quanto essi sono degli “inviati”: il termine infatti traduce il nome greco apostoloi. Ma il discorso è estensibile ad ogni vero cristiano.
Riflettiamo sul senso profondo del termine servo che viene adoperato, e che sarebbe difficile accettare nella modernità. Infatti, tranne per coloro i quali frequentano gruppi di formazione e/o di appartenenza-forte di stampo cristiano, il termine suona alquanto lontano dal comune modo di intendere chi pratica la fede. Possiamo immaginare quale tipo di ragionamento può insinuarsi: dobbiamo essere davvero come quel servo, il quale va ad arare tutto il giorno e, quando torna, deve darsi da fare per servire il padrone, aspettare che lui abbia finito di mangiare, e solo dopo sedersi a tavola anche lui?
Davvero in alcuni punti il vangelo che leggiamo la domenica può lasciare sconcertati, tanto certe immagini sono… fuori dell’ordinario. Anche l’immagine conclusiva del servo inutile -Siamo servi inutili- sembra il perfetto contrario di quanto lo stesso  Luca afferma al cap.12,37: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli. In verità vi dico: si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”.
Allora dobbiamo studiare il vangelo nella sua unità per capire. Il testo vuol dire: l’inviato non deve pretendere riconoscimenti di sorta per quello che fa. Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che lo anima deve essere liberante e liberata; cioè egli deve compiere tutto senza far risalire alcunché a se stesso, rinviando tutto al Signore. Ciò che spetta al credente è ascoltare gli insegnamenti di Gesù e restare nel proprio posto di discepoli. Anche l’agire straordinario di Gesù, come l’operare guarigioni era disinteressato; richiedeva l’atto di fede in Dio del beneficato; la guarigione non era solo opera sua, diveniva efficace attraverso la fede del guarito.
Tutti siamo nella condizione di essere guariti (dalla colpa, dall’indolenza, dalle miserie spirituali e corporali) e cerchiamo chi possa guarirci. Ma spetta sempre a noi completare l’azione di Dio con il piccolo seme della fede, intesa come fiducioso abbandono in Lui.
= Abbiamo detto più volte che i vangeli non sono una cronaca esatta della vita di Gesù ma una teologia, un'applicazione che gli evangelisti hanno fatto del messaggio ascoltato da testimoni risalenti a Gesù.
La parabola si riferisce ad una certa mentalità del tempo. Perciò il messaggio spesso non è immediatamente comprensibile. In tempi più vicini a Gesù era facile identificare Dio nel padrone e il credente nel servo, e questo qualche volta accampava pretese presso il suo padrone. Da ciò l’esempio trasferito nella parabola. Talvolta questi nuovi credenti, identificandosi nel servo, ritenevano di potersi aspettare dei benefici dal seguire Gesù. Come oggi anche noi: se abbiamo fatto le opere buone e siamo stati attenti nell’osservanza dei comandamenti, possiamo ritenere di avere acquistato meriti, diritti davanti a Dio. Gesù vuole smontare questo tipo di credere. Il nostro piccolo seme della fiducia piena in Dio è il piccolo contributo del nostro impegno. A noi non dovrebbe interessare nemmeno la promessa del paradiso. Interessa ricambiare amore con amore.
Una conclusione nostra? Tiriamola ciascuno di noi, non risparmiando quel po’ di fatica che si richiede nel leggere con molta attenzione e nel comprendere il testo nelle sue difficoltà di attualizzazione; senza rimpiangere la brava omelia che raccontava tutto come un racconto facile da capire e, dopo tutto, facile da praticare.
= Una mia breve considerazione.
Essere cristiani è impegnativo. Ma mi chiedo che senso avrebbe per me la vita senza la fede. Trovo indispensabile avere un punto fermo a cui appoggiarmi in ogni situazione. So che ci vuole un continuo (non assillante) esercizio per riconoscere in ogni evento (nessuno escluso) la mano di Dio. Cercandola nella fiducia costante di trovarla, la trovo sempre protesa anch’essa verso la mia. E’ bello che le due mani si stringano, senza illusioni di sorta.