venerdì 28 marzo 2014

La guarigione del cieco nato in Giovanni


IV DOMENICA di QUARESIMA anno A  
1Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13a; Sal 22; Ef 5, 8-14; Gv9, 1-41
INTRODUZIONE
La prima lettura presenta l’unzione regale di David da parte di Samuele: il gesto e le parole del profeta che consacrano il Messia rinviano alle parole e ai gesti di Gesù, “luce del mondo”.
La seconda lettura mette in risalto che l’illuminazione battesimale impegna a una vita di conversione: Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore: camminate come figli della luce”.
Il Vangelo imposta il racconto del cieco nato in riferimento al battesimo cristiano. Gli elementi più interessanti sono.
a) l’umanità di Gesù, nel suo passare tra la gente ad occhi ‘aperti’ -passando, vide-
b) l’efficacia simbolica della guarigione che rende capaci di vedere spiritualmente.
ANALISI del brano di Giovanni
1 [In quel tempo, Gesù] passando, vide un uomo cieco dalla nascita 2 e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. 3 Rispose Gesù: Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. 4 Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5 Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo. 6 Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7 e gli disse: Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe - che significa ‘inviato’-. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Vengono presentati i protagonisti: Gesù e l'uomo cieco. Del primo si dice che stava passando; il verbo ha un senso teologico, indica che egli è sempre in cammino per incontrare ogni persona, a differenza del cieco che attendeva aiuto senza chiederlo.
Nel v.3 Gesù risponde a coloro i quali ritenevano la sua cecità causata da colpa, sua o dei genitori, che la situazione di quest'uomo ha un senso nel piano divino: rendere manifeste le opere di Dio.
Nel v.4 si aggiunge: Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato: con l’uso della prima persona plurale si puntualizza che tali opere le compie Gesù, ma debbono farsene partecipi anche i discepoli finché è giorno, cioè nella vita terrena; quando poi viene la notte, cioè la fine della vita temporale, nessuno potrà agire.
Nel versetto 5 Gesù afferma di essere luce del mondo: forma classica che Giovanni adopera altre volte in concomitanza con l’io sono.
Nei ww.6-7 sono descritti i gesti che Gesù compie nell’operare il miracolo. Si tratta di gesti simbolici, che richiamano la creazione. Il nome della piscina Sìloe significa canale inviante o acqua inviata, titolo cristologico adoperato costantemente dall’evangelista per caratterizzare la missione di Cristo. La conclusione è laconica: Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva; frase che evidenzia la disponibilità del guarito, contribuendo all’ottenimento della guarigione; e che, suona come ammonimento implicito, volto ai discepoli perché siano altrettanto disponibili.
8 Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: “Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?”. 9 Alcuni dicevano: “E’ lui”; altri dicevano: “No, ma è uno che gli assomiglia”. Ed egli diceva: “Sono io!”.10 Allora gli domandarono: “In che modo ti sono stati aperti gli occhi?”.11 Egli rispose: “L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». 12 Gli dissero: “Dov’è costui?”. Rispose: “Non lo so”.
La guarigione innesca una serie di polemiche che occupano la parte centrale e più lunga della pericope; si tratta di un gruppo di versetti divisi in tre scene precedute da una introduzione, quali sono i vv. 8-12 qui riportati, in cui si identificano l'identità del destinatario della guarigione e la modalità del segno della guarigione stessa.
All’insistenza per una verifica -in che modo- e -Dov’è costui-, il cieco nato risponde con un semplice Non lo so. Risposta che va al di là delle insinuazioni degli interroganti: ricevuto il dono divino, non vuole argomentare (forse vorrebbe dire soltanto un tacito grazie).
13 Condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14 Era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15 Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: “Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo”. 16 Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: “Come può un peccatore compiere segni di questo genere?”. E c’era dissenso tra loro. 17 Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”.
I vv.13-14 precisano che quel giorno era un sabato (analogamente alla guarigione del paralitico).
Poiché il vangelo di Giovanni riflette la situazione della sua comunità, la quale era in contrasto con la Sinagoga, è possibile vedere nell’interpretazione legalista dei farisei anche  quella della comunità cristiana primitiva.
Nel v.17 l’evangelista ironizza, quasi a dire alla sua comunità: se i dotti farisei non sanno, mentre costringono un povero cieco a dire chi è per lui Gesù, ottenendo da lui la più semplice delle risposte possibile: “È un profeta!”, anche loro dovrebbero non rispondere con i ragionamenti agli interrogativi della fede; quando si cerca la verità di Dio, bisogna trovare la risposta giusta nel cuore umano, dove hanno sede i doni divini, i quali possono essere elargiti a chi è disponibile ad essere guarito dalla cecità spirituale.
18 Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19 E li interrogarono: “È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?”. 20 I genitori di lui risposero: “Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21 ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé”. 22 Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23 Per questo i suoi genitori dissero: “Ha l’età: chiedetelo a lui!”.
I giudei, non essendo disposti a credere al prodigio operato da Gesù e non trovando nel miracolato appoggio alla loro incredulità, tentano di sostenere che egli non era nato cieco. Dal v. 18 non si parla più di farisei, ma di giudei, ossia di tutto il gruppo legato al potere religioso e politico che si oppose a Gesù.
L'interrogatorio dei genitori mostra la loro paura: essi non si espongono e rimandano alla responsabilità del figlio la decisione sul miracolo avvenuto. C'è qui un rimando alla difficile scelta che ciascuno è chiamato a fare se vuole essere discepolo di Gesù.
I vv. 22-23 probabilmente furono inseriti inseriti nel vangelo di Giovanni da un redattore ai fini di proiettare sul passato quanto viveva la sua comunità, che era stata espulsa dalla sinagoga alla fine del I secolo dopo Cristo. Non si può non notare la sovrapposizione dei due piani storici, quello del racconto della vita di Gesù e quello della chiesa di Giovanni; in quest’ultima, verso la fine del I secolo, c’era aperta ostilità tra comunità giudaica e cristiana (è risaputo che la rottura ufficiale fu sancita al concilio ebraico di Jamnia tra 85 e il 90 d.C., quando Gamaliele fece condannare i seguaci di Cristo).
24 Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: “Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”. 25 Quello rispose: “Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo”. 26 Allora gli chiesero: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?”. 27 Rispose loro: “Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. 28 Lo insultarono e dissero: “Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29 Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia”. 30 Rispose loro quell’uomo: “Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31 Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32 Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33 Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”. 34 Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?”. E lo cacciarono fuori.
Andato a vuoto il tentativo precedente, ecco un’ulteriore fase dell'interrogatorio: colui che era cieco viene di nuovo sottoposto ad una serie di domande che sono un invito ad esprimersi secondo verità.
Questi, nella sua risposta (vv. 30-33) viene indicato come colui che ha abbandonato non solo le tenebre fisiche, ma anche quelle della mente e dello spirito, e perciò riconosce che Gesù viene da Dio facendo un riferimento ai testi profetici (se tutto l’episodio fosse avvenuto storicamente così come è presentato, il cieco guarito avrebbe dovuto essere un esperto in conoscenza biblica, tanti sono i riferimenti, soprattutto ad Isaia, e ciò sarebbe in contraddizione con la sua ingenuità).
35 Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: Tu, credi nel Figlio dell’uomo?. 36 Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. 37 Gli disse Gesù: Lo hai visto: è colui che parla con te. 38 Ed egli disse: “Credo, Signore!”. E si prostrò dinanzi a lui.
La sezione conclusiva pone l'uomo risanato di nuovo di fronte a Gesù, il quale, come annota l'evangelista, saputo che l'avevano cacciato fuori, va a cercarlo. Gesù ancora una volta va incontro a quest'uomo per fargli un dono più grande di quello della vista del corpo: il dono della piena rivelazione di se stesso.
Gesù si rivela come il Figlio dell'uomo, ossia come l’inviato dal Padre a radunare gli esseri umani e ad elevarli alla partecipazione della vita di Dio.
Nel v. 37 sono riuniti due elementi tipici del quarto vangelo: la parola e la visione. Le parole che l’evangelista pone in bocca a Gesù, sono commoventi: Lo hai visto: è colui che parla con te. L'uomo risanato risponde con una piena adesione di fede espressa con le parole e con un gesto carico di significato, l‘adorazione (il verbo greco usato è proskunéo), che in Giovanni ha sempre un forte senso teologico: indica l'adorazione dovuta a Dio (ma, usando questo termine, l’evangelista intende parlare di Gesù come colui che rivela Dio).
39 Gesù allora disse: E’ per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi. 40 Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo ciechi anche noi?”. 41 Gesù rispose loro: Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane.
Alla piena adesione di fede dell'uomo risanato si oppone la cecità dei giudei. Il giudizio che si voleva operare su Gesù si ritorce contro di essi, intenzionalmente rimasti nelle tenebre, nonostante il dono di luce offerto da Gesù con questo segno.
Altra nota: il termine krìma, utilizzato qui per ‘rendere giudizio’, ha valore sia positivo che negativo (a differenza di krìsis che lo stesso Giovanni usa sempre in senso negativo).
Il v. 41 sottolinea come la presunzione di vedere, l'autosufficienza di chi pensa di avere da sé l'illuminazione, in definitiva la mancanza di fede autentica, esclude dall'azione liberatrice di Gesù, il solo che toglie il peccato (come si esprime Giovanni in 3,36).
La mia proposta
Preghiamo col salmo 22:
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. / Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. / Rinfranca l’anima mia. Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. / Anche se vado per una valle oscura, / non temo alcun male, perché tu sei con me. / Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. /  Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. / Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca. /  Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, / abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.

venerdì 21 marzo 2014

III Domenica di Quaresima T. O. anno A


Es17, 3-7; Sal 94; Rm 5.1 - 2.5-8; Gv 4, 5-4
INTRODUZIONE
PREMESSE DI SERVIZIO
a) Ciò che scrivo non è frutto né di una mia interpretazione, né di un mio lavoro creativo: mi limito ad elaborare e a dare unità (non arbitraria) a ciò che gli esegeti hanno scritto. Di mio c’è il ‘rimuginare la Parola’, come facevano gli antichi padri del deserto. E il materiale rimasticato mi fa scrivere ciò che scrivo.
b) Seguendo le letture liturgiche domenicali, si può avere la sensazione che il continuo ‘saltare’, ad esempio nel vangelo del giorno, da Matteo a Giovanni e, in seno a Giovanni, da un capitolo all’altro, possa rendere meno fruttuosa la conoscenza esatta della stesura redazionale; tanto che sembra giustificata la domanda: non è meglio leggere il vangelo fuori dal vincolo liturgico, nella sua continuità redazionale?
Rispondo a me stessa prima che a voi: il legame liturgico non è inutile; è un metodo di lettura, utile come è utile ogni metodica seguita nell’adempiere i gesti della quotidianità. In particolare, la messa domenicale che si celebra nelle chiese, è punto di riferimento indiretto anche per coloro che guardano alla chiesa cattolica pur essendone lontani; e i lontani dovrebbero essere i più vicini ai fedeli praticanti.
c) In questa domenica la liturgia propone Giovanni, anziché Matteo che seguiamo maggiormente durante l’anno del ciclo A. Giovanni compare più volte anche quando l’anno liturgico segue uno dei Sinottici. Compare soprattutto nei momenti cruciali dell’itinerario messianico, che tutti i vangeli percorrono attraverso cinque tappe: Avvento e Natale, Quaresima e Pasqua, Tempo ordinario.
d) Ma è veramente accaduto l’episodio narrato oggi? E’ questa la domanda che mi hanno rivolto parecchie persone a cui ho concesso l’anteprima di questo post. Tutti, quando raggiungiamo l’età matura dobbiamo svegliarci dalle sicurezze storiche. Per analogia, anche circa le favole, le leggende, i detti sapienziali, dobbiamo disincantarci dalle sicurezze che ci sembravano assicurate quando li leggevamo e credevamo attribuibili a precisi riferimenti a fatti storici o a firme di autori ritenuti esistenti nel passato. Con la maturità la caduta del mitico non crea traumi, se si sa cogliere la ricchezza del contenuto per se stesso.
ELEMENTI-CHIAVE DELLE LETTURE ODIERNE
a) Primo elemento è la sapienza della pace, quale connotato di Dio e modello della comunione da realizzare in tutto il creato:
- In Esodo il popolo di Dio soffre la sete nel deserto attraversato per raggiungere la terra promessa, e mormora contro Mosè, poiché non si fida dei disegni di amore del Creatore. Il Quale dà prova, attraverso il prodigio di Mosè che fa sgorgare acqua dalla roccia, della sua fedeltà all’Alleanza.
- Nella Lettera ai Romani Paolo afferma: “noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”. Non dunque una pace che sia frutto di imprese e meriti umani, ma che è accettata come dono divino. L’umiltà trasforma la povertà spirituale mediante il ricorso all’aiuto divino,  e in tal modo scioglie la durezza del cuore.
- Nel Vangelo la “donna samaritana” rappresenta un’umanità degradata e ingannata dall’ipotesi di una solitudine autosufficiente, individualista e quindi fatalmente aggressiva. Il testo giovanneo descrive un itinerario che strappa alla solitudine miseramente orgogliosa e fa riscoprire il volto nuziale della esistenza umana. Bisogna che l’umanità recuperi la sapienza della relazione divina, fuori dalle adorazioni idolatriche alienanti, per innestarla nella storia dell’umanità ferita e guarire le sue ferite.
b) Secondo elemento è l’acqua, simbolo supremo di ciò che può soddisfare la sete di Dio. Acqua e sete sono simboli ricorrenti nella Bibbia. Circa 1.500 versetti dell'Antico e oltre 430 del Nuovo Testamento sono "intrisi" d'acqua. C'è una vera e propria costellazione di realtà che ruotano attorno a questo elemento così prezioso. E Cristo ne ha fatto il suo emblema, come si intuisce nell’incantevole dialogo con la Samaritana [che sarà frutto di ricostruzioni, ma è efficace e toccante]: v.14 … chi beve dell'acqua che io gli darò non avrà più sete, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna.
ALTRE PUNTUALIZZAZIONI
- Nel vangelo di Giovanni, le parole poste in bocca a Gesù sono, a differenza di quelle usate nei Sinottici,  rarefatte, perché proiettate verso orizzonti infiniti.
- E’ da tener presente che questo vangelo, spesso letto come un freddo testo filosofico, è invece un testo drammatico. Appaiono testimoni, criminali o santi, che non sono mai delle figure circoscritte, anagrafiche, ma rappresentative della storia dell’umanità, in cui con c’è chi non possa riconoscersi. E sfilano tre personaggi che rappresentano tre avventure emblematiche di fede: Nicodemo, la samaritana e il funzionario regio. La seconda, la Samaritana, che è oggi sotto lo sguardo dei lettori, rappresenta l’ebreo eretico. E’ una donna svantaggiata per la sua appartenenza di genere; ma è stata scelta intenzionalmente da Giovanni come simbolo del giudaismo eterodosso, in quanto appartenente ad una razza miscelata con i coloni assiri (da quando la Samaria era crollata nel 721 a.C.).
- La Samaritana, nel racconto che ne fa Matteo, emerge in un’atmosfera luminosa; infatti la scena si svolge nel mezzogiorno, come quando Gesù fu messo in croce; ed è pieno di suggestioni il fatto che l’incontro con Gesù avvenga vicino ad un pozzo, l’unico della Samaria, ricco di molti richiami biblici.
ANALISI di Gv4, 5-42
L’evangelista costruisce questo episodio tenendo presente la storia del profeta Osea, il primo che ha raffigurato il rapporto tra Dio e il suo popolo paragonabile a quello tra uno sposo e una sposa. La sua vicenda personale di matrimonio infelice per il tradimento della moglie, serve per comprendere il brano della Samaritana, dove l’evangelista presenta lo sposo (Gesù) che va in cerca dell’adultera (Samaritana) e la riconquista con un dono d’amore.
5 Gesù] giunse così a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio:
Gesù sta attraversando una terra carica di storia che si rifà alle origini di Israele, prima della divisione tra Giudei e Samaritani, quando i due popoli erano uniti dalle stesse origini. La città di Samaria di cui si parla è probabilmente l'attuale Askar, ai piedi dell'Ebal; aveva preso il posto di Sichem, distrutta nel 128 e nel 107 a.C. e ricostruita dopo il 72 d.C. con il nome di Flavia Neapolis, oggi Nablus. Sicar è probabilmente l’antica Sichem (Gn 33,18-20), città esistente al tempo di Giacobbe.
Negli anni di siccità, quando non era possibile la mietitura a Gerusalemme o in Giudea, e non si potevano presentare le primizie per celebrare le feste degli Azzimi e della Pentecoste, si poteva andare a raccoglierle nell’odiata Samaria, proprio a Sicar. Giacobbe-Israel è il patriarca che ha dato il nome al popolo e alla sua terra, padre di Giuseppe, il tradito dai fratelli che cercano di dargli la morte e che poi sarà la loro salvezza.
L’allusione dell’evangelista è evidente: Gerusalemme e la Giudea non producono frutto (spirituale), mentre nell’eretica Samaria il raccolto è più che abbondante.
6 qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno.
In una regione in cui l'acqua è scarsa, i punti in cui essa sgorga diventano luoghi privilegiati di incontro, di conflitti e riconciliazioni, di antichi ricordi e leggende.
Ambientando l’episodio vicino a un pozzo, Matteo usa un tema letterario biblico patriarcale: Mosé aveva incontrato vicino ad un pozzo le figlie di Reuel (una di loro sarebbe poi divenuta sua sposa); le nozze di Isacco e di Giacobbe erano state combinate accanto a un pozzo. Anche dal punto di vista della teologia ebraica il pozzo assume grande rilievo. Vi è una tradizione giudaica, ripresa da Paolo, in cui la fonte d'acqua donata da Dio addirittura seguiva il popolo di Israele nel deserto.
La strana espressione adoperata dall’evangelista, sedeva presso il pozzo (traducibile con il termine sorgente), vuole indicare che Gesù stava lì in maniera permanente; quindi la frase ha il significato teologico che Gesù sarà la nuova sorgente, la quale sostituirà quella di Giacobbe.
Il mezzogiorno, o ora sesta, sarà quella della condanna a morte di Gesù, sicché l’incontro di Gesù con la Samaritana ne è prefigurazione.
7 Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: Dammi da bere.
Alcune puntualizzazioni: il mezzogiorno non era l’orario più indicato per andare ad attingere al pozzo (ci si recava all’alba e al tramonto); nella letteratura biblica l’incontro di un uomo e una donna presso un pozzo preludeva al fidanzamento e al matrimonio, come risulta dai racconti biblici circa Rebecca e Isacco, Rachele e Giacobbe, Mosè e Zippora; i maschi si  ritenevano superiori alle femmine e mai un uomo si sarebbe abbassato a chiedere qualcosa a una donna, e i Giudei disprezzavano soprattutto le donne samaritane, che consideravano immonde fin dalla nascita.
Questa donna, col suo anonimato, è figura rappresentativa del suo popolo, i samaritani, i quali hanno sete di vivere la loro storia di Alleanza con YHWH e perciò vengono al pozzo del loro padre Giacobbe. Anche la donna samaritana va a dissetarsi al pozzo di Giacobbe, cioè nell’antica tradizione del suo popolo. Gesù, chiedendo da bere, manifesta di aver sete come chiunque voglia vivere; però le sue parole, le stesse che troviamo in Esodo, alludono (per Matteo) al nuovo Israele che sperimenta la sete della parola di Dio.
8 I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi.
Questo inciso sottolinea il fatto che Gesù è da solo. L’esclusione dei discepoli serve all’evangelista per richiamare l’incontro, in solitudine, dello sposo con la moglie adultera, di cui parla Osea.
9 Allora la donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.
Gesù si rivolge alla samaritana su un piano di parità. Ciò desta la sua sorpresa. Gesù infatti, come spiega lo stesso Giovanni, rivolgendole la parola, infrange una delle regole essenziali vigenti tra questi due popoli.
11 Gli dice la donna: “Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?
12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?”.
La donna comprende che in questo uomo c’è qualcosa che supera le divisioni e i litigi tra i due popoli. La sua reazione parte dall'ultimo elemento nel v.11 l'acqua viva, per poi risalire all'identità di Gesù. Il  da dove ha un significato molto importante nel vangelo di Giovanni, perché richiama il suo costato trafitto, ìda dove’ scaturì sangue ed acqua.
13 Gesù le risponde: Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete;
14 ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna.
Gesù non risponde direttamente alla donna, bensì decanta le qualità della sua acqua; parla dell'avere ancora sete e del non avere più sete, per indicare che, se quest'acqua toglierà per sempre la sete, allora è un’acqua carica di eternità.
15 “Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”.
In poche battute Gesù ha provocato una inversione. Ora è la donna che ha sete e non lui. Forse la domanda della samaritana è ancora legata alla sua esperienza materiale, l'acqua quotidiana, però la sua richiesta nasce da un bisogno più profondo.
16 Le dice: Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui.
17 Gli risponde la donna: “Io non ho marito”. Le dice Gesù: Hai detto bene: “Io non ho marito”.
18 Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero.
Questa digressione sul passato della donna sembra alquanto fuori luogo. Inoltre vi sono delle incongruenze: secondo la legge si potevano contrarre al massimo tre matrimoni. Forse in questo dialogo prevale il senso allegorico: i cinque mariti potrebbero essere i cinque déi introdotti in Samaria dopo la conquista assira del 721, quindi non sarebbe fuori luogo il fatto che il discorso continui parlando di luoghi di culto. La samaritana con i suoi cinque mariti, e il sesto che non è suo marito, sarebbe l'allegoria della Samaria che viene esortata da Gesù a chiamare JHWH come suo vero marito, come suo vero Dio.
19 Gli replica la donna: “Signore, vedo che tu sei un profeta!
20 I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”.
La donna vedendo che Gesù ha delle capacità superiori alla norma, gli sottopone un problema che stava a cuore a lei come a tutto il suo popolo. I Samaritani avevano continuato ad adorare il Signore sul monte Garizim, a tre km da Sichem, poiché in quel luogo il Signore aveva benedetto Israele, e in quel luogo era avvenuta la visione di Giacobbe; essi avevano continuato a venerare il Signore in questo luogo anche dopo l'unificazione del culto a Gerusalemme.
21 Gesù le dice: Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre.
22 Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei.
Nel Vangelo di Giovanni sono tre i personaggi femminili ai quali Gesù si rivolge con l’appellativo donna, che ha il significato di moglie. E sono le tre donne che rappresentano le spose del Dio: Maria madre di Gesù, la samaritana e Maria di Magdala.
Gesù annuncia alla donna un cambio radicale: è terminata l’epoca dei templi, non ci sarà più un luogo privilegiato per rendere culto a Dio. Anche il tempio di Gerusalemme si è prostituito e Gesù ne ha annunciato la fine; e ora Gesù anziché usare il termine Dio, usa quello di Padre. Per questo, mentre il culto a Dio ha bisogno di un luogo particolare, quello al Padre no. Questo nuovo nome riflette la relazione che Dio stabilisce con gli esseri umani: un legame intimo e personale come tra un padre e i suoi figli. Per questo non ci sarà più un luogo particolare in cui si adorerà Dio.
23 Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano.
24 Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità.
- viene l’ora, adesso, con la presenza di Gesù; è giunta l'ora di adorare il Padre da veri adoratori. E qui non ci si ferma più a un popolo in particolare, ma a tutti coloro che sapranno adorare Dio nella dimensione di Padre. In Spirito e verità significa alla presenza dello Spirito, Fonte di quel dinamismo di vita e amore che si è manifestato nella creazione.
25 Gli rispose la donna: “So che deve venire il Messia chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa.
Lo stesso verbo dell'ora che deve venire, erkhetai, viene usato per il Messia che deve venire: l’atteso dai giudei, che avrebbe rivelato i più grandi segreti divini.
Il termine messia era già apparso in bocca ad Andrea, uno dei primi discepoli. L’evangelista per la seconda volta chiarisce il significato del termine ebraico messia = unto, Cristo.
26 Le dice Gesù: Sono io, che parlo con te.
Gesù si manifesta apertamente. A nessuno mai si è rivelato in questo modo, se non alla samaritana. Quando Mosè aveva chiesto a Dio: “Chi sei? Dimmi il tuo nome”, Dio non aveva risposto non indicando un nome, perché il nome delimita un’identità, ma indicando un’attività che lo rende riconoscibile: io sono colui che è: l’espressione non è da considerare dal punto di vista metafisico, piuttosto conferma la sua presenza fedele ed efficace nella storia.
27 In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: ‘Che cosa cerchi?’, o: ‘Di che cosa parli con lei?’.
Arrivano i discepoli e si interrompe l’incanto del dialogo. I discepoli rimangono stupiti che Gesù stia a discorrere con una donna. La loro reazione conferma ulteriormente la non comprensione di ciò che Gesù intende fare attraversando la Samaria.
28 La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente:
La donna lasciò la brocca che le serviva per attingere l'acqua dal pozzo perché aveva trovato l'acqua viva di cui Gesù le aveva parlato.
La brocca, o giara, raffigura la dipendenza che la Legge, ma allo stesso tempo raffigura l’incapacità di soddisfare pienamente i bisogni umani senza Dio; infatti l’acqua del pozzo non spegne la sete poiché bisogna attingerla continuamente. Abbandonare la giara significa rompere con un sistema di norme e precetti che impedisce il rapporto interiore con Dio.
29 “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”.
La samaritana dice ai suoi compaesani che quell'uomo conosceva tutto il suo passato, come indice della conoscenza eccezionale che Gesù aveva delle cose. Non dice apertamente che si tratta del Messia, ma lo insinua velatamente. Saranno i suoi compaesani a fare l'esperienza diretta di Gesù e della verità della sua parola.
30 Uscirono dalla città e andavano da lui.
I samaritani credettero alla parola della donna e andavano incontro a Gesù.
La fede nasce dall’incontro con Gesù ma si presenta come un cammino, quindi è un uscire dal proprio passato di incertezze e un andare verso la realtà nuova dove trovare pienezza di vita.
31 Intanto i discepoli lo pregavano: “Rabbi, mangia”.
32 Ma egli rispose loro: Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete.
33 E i discepoli si domandavano l’un l’altro: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”
34 Gesù disse loro: Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera.
Nessun testo giovanneo esprime in modo così pregnante l'atteggiamento di Gesù nell'esercizio della sua missione: Gesù ha per nutrimento la sua unione con il Padre; il suo cibo è un altro. Fare la volontà del Padre non significa solo accettarla fiduciosamente, significa cooperare alla sua realizzazione. Lo dirà anche alla vigilia della sua morte (Gv 17,4).
35 Voi non dite forse ‘ancora quattro mesi e poi viene la mietitura’? Ecco, io vi dico: Alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura.
In questa seconda parte del discorso Gesù vuol coinvolgere i discepoli nella missione stessa del Padre e fatta sua: anche loro sono chiamati ad essere missionari, i campi sono pronti per essere mietuti.
36 Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete.
Il mietitore riceve, riunifica, raduna il frutto: questa espressione sottintende la riunificazione tra il giudeo Gesù e i samaritani, la riunificazione con i lontani.
37 In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete.
38 Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica.
Il seminatore e il mietitore che prima coincidevano ora diventano due personaggi differenti. Vi sarà un tempo in cui i discepoli raccoglieranno la messe seminata e coltivata con fatica da altri: Gesù e chi è venuto prima di lui (i profeti). Anche i discepoli saranno mandati a seminare la parola di Dio, ma questa non viene da loro, bensì dal Seminatore
39 Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”.
Questo versetto si riaggancia a quello in cui avevamo lasciato la samaritana tornata al villaggio e introduce l'incontro di Gesù con i samaritani. Il verbo utilizzato è forte: la samaritana testimoniava, come Giovanni il Battista. La donna ha una funzione essenziale.
40 E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni.
I Samaritani superano i pregiudizi religiosi della propria tradizione, vanno da Gesù e lo pregano di rimanere con loro. Hanno trovato in Gesù colui che è stato capace di superare l’inimicizia tra i due popoli.
Alla richiesta di rimanere, Gesù si ferma due giorni con loro, come lo Spirito rimase su Gesù (Gv 1,32), e come i primi due discepoli. È evidente l’allusione dell’evangelista al profeta Osea.
41 Molti di più credettero per la sua parola.
42 e alla donna dicevano: “Non è più per i tuoi discorsi che crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.
La donna ha ipotizzato il Messia in Gesù, e i samaritani vanno da lui perché pensano di trovare coli che attendevano.
L’espressione il salvatore del mondo è in parallelo con la dichiarazione del Battista riguardo  a Gesù: colui che toglie il peccato del mondo; entrambe le espressioni richiamano l’amore universale del Padre.
DUE COMMENTI
Un bel commento di E. Ronchi:
Quest'acqua viva è l'energia dell'amore di Dio. Se lo accogli, diventa qualcosa che ti riempie, tracima, si sprigiona da te, come una sorgente che zampilla "per la vita", che fa maturare la vita, la rende autentica e indistruttibile, eterna. In te, ma non per te: la sorgente è più di ciò che serve alla tua sete, è per tutti, senza misura, senza calcolo, senza fine. Vai a chiamare colui che ami. Quando parla con le donne, va diritto al centro, al pozzo del cuore. Solo fra le donne Gesù non ha avuto nemici, il suo è il loro stesso linguaggio, quello dei sentimenti, del desiderio, della ricerca di ragioni forti per vivere. ‘Non ho marito’. E Gesù: hai detto bene, erano cinque. Ma non istruisce processi, non cerca indizi di colpevolezza, cerca indizi d'amore; non le chiede di mettersi prima in regola, le affida un dono; si fida e non pretende di decidere per lei il futuro. Messia di suprema delicatezza, volto bellissimo di Dio. Che cosa si vede da quel luogo, dal pozzo di Sicar? Il monte Garizim, con il tempio dei samaritani; e attorno cinque alture su cui i coloni stranieri, che hanno ripopolato Samaria, hanno eretto cinque templi ai loro dei. Il popolo è andato dietro a cinque idoli, come la donna a cinque uomini. Storia, simbolo, popolo, persona, tutto si intreccia per convergere all'essenziale: lo Sposo cerca la sposa perduta. La donna percepisce l'offerta di questa energia d'amore, ne è contagiata, corre in città, ferma tutti per strada: c'è uno che dice tutto di te! Lui conosce il tutto dell'uomo: c'è in ognuno una sorgente di bene, un lago di luce, più forte del male, fontane di futuro. Gesù: lo ascolti e nascono fontane. In te, per gli altri.
Un commento personale:
Dammi da bere: Queste parole sono la preghiera costante che formula il mio cuore, tanto che questi ultimi giorni, appena compiuta la stesura, di questo post, mi è sembrato di avere avuto un abbaglio: avevo dimenticato che è stato Gesù per primo a fare tale richiesta.
Tento di dare un senso all’abbaglio preso: non siamo mai noi ad invocare per primi l’acqua che possa dissetare il nostro cuore. E lo Spirito ad invocare in noi. Sento che a me non resta che far miei pochi spezzoni del salmo proposto oggi dalla liturgia:
… È lui il nostro Dio / e noi il popolo del suo pascolo, / il gregge che egli conduce. / Se ascoltaste oggi la sua voce! /  “Non indurite il cuore”.

venerdì 14 marzo 2014

II Domenica T.O. anno A

TRASFIGURAZIONE di GESU’
Gen 12, 1-4
«Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
2 Tm 1, 8-10
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall'eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'incorruttibilità per mezzo del Vangelo.
Mt 17, 1-9
1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse in disparte, su un alto monte. 2 E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3 Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4 Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. 5 Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6 All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7 Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: Alzatevi e non temete. 8 Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. 9 Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti.
SGUARDO D’INSIEME
In questa II domenica di quaresima la liturgia inserisce, nel cammino di penitenza verso la Pasqua, una sorta di interruzione: mentre richiama al cambiamento severo della propria vita, mitiga l’aspetto penitenziale di tale cammino, anticipando l’ingresso nella luce che risplenderà in pieno nella Pasqua. Bene si innesta in questo spazio un altro richiamo: al Battesimo, segno, attraverso l’immersione nell’acqua purificatrice, della radicale trasformazione dell’essere naturale in quello rigenerato dalla Luce della grazia divina.
= ll tema della CHIAMATA è dominante nelle Letture. Ciascuna di esse ha peculiari tonalità:
In Gn 12,1-2 YHWH invita Abramo a lasciare le sue sicurezze per seguire Lui, il Signore.
In 2Tm 1,8-10 Paolo, al v.8, insiste: "soffri anche tu insieme con me per il vangelo"; e, al v.10, ricorda che la prospettiva non è la morte, ma la Vita, perché Gesù “ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo”.
In Mt 17,1-9 la chiamata è rivolta da Gesù, a Pietro, Giacomo e Giovanni; ad essi vuole svelare la sua vera identità di Messia, e lo fa attraverso una visione di Luce.
Qui è da aprire una importante parentesi sul titolo ‘Signore’ col quale i tre, al v.4 si rivolgono a Gesù. Leggendo, si ha la sensazione immediata che, chiamando  Gesù Signore, essi riconoscano a Lui una signoria divina, uguale a quella di YHWH. Ma noi sappiamo che la definizione della divinità di Gesù, seconda persona della Trinità, è frutto di un’elaborazione dottrinale, successiva alla stesura dei vangeli (i quali sono giunti a noi attraverso stratificazioni, relative a situazioni e momenti diversissimi, sovrapposti al kerigma, o annunzio orale). Matteo, avendo presenti le fonti di tale messaggio orale, le ha volute organizzare. Il suo è un intento catechetico nei confronti della comunità, per indicare la quale conia il termine ekklesia.
Eppure non è solo un arido insegnamento che Matteo consegna alla sua comunità [e a noi], ma una frase lapidaria, al v.7, Alzatevi e non temete; parole che invitano a guardare oltre la visione di luce e oltre le parole ascoltate.
= La Trasfigurazione si può considerare come un vero e proprio dramma. Struttura, svolgimento, attori, scansioni temporali fanno sì che l’evento abbia efficacia rappresentativa.
La Trasfigurazione non è altro che una esperienza di trasformazione che anticipa la condizione della vita immersa nella pienezza della LUCE divina.
In molti film vi è il cosiddetto flash back, una sospensione nella narrazione, per ricordare un fatto del passato che può aiutare lo spettatore a comprendere meglio la vicenda. Nella trasfigurazione invece vi è un flash in avanti, ovvero la luce con cui è avvolto Gesù, rimanda alla luce futura che splenderà nella resurrezione (non a caso la festa della trasfigurazione il 6 di agosto è definita “Pasqua d’Estate”).
I dati del testo – che, come è noto, ha la triplice redazione sinottica di Matteo, Marco e Luca, possono essere ricomposti secondo una trama affidata a SETTE PERSONAGGI che, a livelli diversi e secondo ruoli differenti, reggono l’intero dramma: Gesù che dominerà per tutto lo svolgimento del dramma ed è subito presentato col suo nome proprio Iesous scandito quattro volte nel­la redazione marciana. A lui saranno destinati altri titoli solenni che sono proposti nel prosieguo del racconto e nell’apparire dei vari attori dell’evento.
Mosè ed ELIA,  i due grandi testimoni della Prima Alleanza. Curiosamente Marco inverte i due personaggi, forse per rimarcare la tipologia profetico-eliana con cui spesso è tracciato il Volto di Gesù nei Vangeli. L’ordine storico-tradizionale anticipa, comunque, la figura di Mosè, il legislatore del Sinai. Pietro, Giacomo e Giovanni, che costituiscono nel Vangeli un gruppo privilegiato il quale, a più riprese, riveste una posizione eminente così da costituire, come ha osservato un esegeta, Joachim Gnilka, ‘i portatori speciali della rivelazione di Cristo’. Il Padre, che  da protagonista  scioglie l’enigma della scena: la sua presenza-assenza, fa ascoltare soltanto la voce che atterrisce gli astanti; e sembra di ascoltare l’eco del passo di Dt 4,32-33 dove si dice: “Dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra vi fu mai cosa grande come questa, che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco e sia rimasto vivo?”.
= Altro tema è l’ASCOLTO. Ma per questo rimandiamo alla conclusione.
ANALISI del brano di Matteo
1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse in disparte, su un alto monte.
- sei giorni dopo. Matteo costruisce la sua narrazione sullo schema della salita di Mosè sul monte Sinai e sulla creazione dell’essere umano, il sesto giorno; creazione che, per l’evangelista, avrebbe avuto la piena realizzazione in Gesù.
- prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello. Gesù porta con sé tre discepoli, così come Mosè che, quando salì sul Sinai, prese con sé Aronne, Nadab e Abiu. I tre sono Pietro, soprannome di Simone usato per indicare il suo comportamento di incomprensione del messaggio di Gesù; Giacomo e Giovanni, i due fratelli che, sia sul monte della trasfigurazione, sia nel Getsemani, mostreranno la loro incapacità di comprendere Gesù e di essergli solidali nel suo destino.
- su un alto monte. Così è indicato il luogo delle tentazioni: l’altezza simboleggia la massima espressione del potere, connesso al concetto di divinità (questa la più terribile insidia del tentatore).
2 E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole.
Attraverso queste immagini l’evangelista intende mostrare in Gesù la condizione dell’essere umano nel suo transitare dalla vita nel tempo alla sua fne.
- fu trasfigurato. L’azione di Dio su Gesù opera una trasformazione.
- il suo volto brillò come il sole. La trasformazione è visibile attraverso il volto che diviene luminoso tanto da apparire divino. La frase evangelica richiama un’altra frase dello stesso Matteo in 13,43: I giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre.
e le sue vesti divennero candide come la luce. Il candore delle vesti è lo stesso di quello dell’Angelo del Signore quando annunciò la risurrezione di Gesù.
3 Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
La visione vuole indicare ai tre che Gesù Cristo avrebbe compiuto un’opera simile a quella di Mosè e ad Elia. Mosè era considerato come patriarca in quanto rappresentante tipico del patto della Legge, connesso alla liberazione della nazione e al suo sicuro trasferimento nella Terra Promessa. Elia nell’AT è citato più volte attraverso i libri dei Re: applicando ad Elia una leggenda ispirata alla figura simbolica di un’antica divinità solare, egli non avrebbe conosciuto la morte.
4 Ora, Pietro, prendendo la parola, disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te e una per Mosè e una per Elia».
Pietro non si smentisce e si intromette nel discorso dei tre. Mentre nel parallelo di Marco, Pietro chiama Gesù Rabbì, e Luca lo chiama Maestro, Matteo invece usa il termine Signore, per spiegare ai discepoli che Gesù era un maestro singolare, diverso dagli altri.
- farò qui tre tende. Era diffusa la credenza che il Messia si sarebbe manifestato durante una delle feste più popolari di Israele, la festa delle capanne, che veniva chiamata semplicemente la festa (1Re 8,2), durante la quale gli Ebrei, in ricordo della liberazione dall’Egitto, dimoravano per sette giorni in tende, le quali erano necessarie nel deserto attraversato prima di raggiungere la meta. Proponendo le tende, Pietro, vuole impedire la discesa dal monte della gloria: in tal modo svolge il ruolo di satana perché tenta Gesù ad un messianismo trionfante nella terra.
5 Mentre egli ancora parlava, ecco una nube luminosa li coprì con l'ombra. Ed ecco, una voce dalla nube, che diceva: “Questi è il mio figlio, il diletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!”.
- Mentre egli ancora parlava. La nube luminosa interrompe il discorso di Pietro.
- Ed ecco.  Si introduce per la terza volta qualcosa di nuovo.
- una nube luminosa li coprì con l'ombra. La nube luminosa è un controsenso che si trova solo in Matteo (come può una nube fare luce?). In questo elemento troviamo ancora l'influsso dell'Esodo dove si parla di nube della gloria del Signore, la quale appariva come fuoco divorante, agli occhi dei figli d'Israele, sulla cima della montagna.
- che diceva. Cioè ‘si ode una voce dal cielo’, del tutto simile a quella che è stata udita dopo il battesimo di Gesù.
- è il mio figlio, il diletto. Il termine Figlio nell’AT è  riferito ad Isacco, definito in Gn 22: figlio unico, prediletto.
- nel quale mi sono compiaciuto. Questa è un’aggiunta che si trova in Is 42.
- Ascoltatelo. Un verbo che si aggiunge rispetto alla voce del battesimo, e che è, in realtà, un concentrato di riflessione messianica: Matteo invita la sua comunità a prendere le distanze dal legislatore Mosè e dal riformatore Elia, per fissare la sua attenzione solo in Gesù, l’unico che deve ascoltare perché è il solo che rispecchia pienamente la volontà divina in quanto Figlio di Dio.
6 E, udendo (ciò), i discepoli caddero sul loro volto e temettero grandemente.
- E, udendo (ciò), i discepoli.  Questo quadro richiama alla memoria la visione apocalittica dell'uomo vestito di lino contenuta in Dn 10,5-21. Ritornano infatti gli stessi elementi di questo brano: lo splendore luminoso del volto, la voce, il timore, a cui seguirà l'incoraggiamento.
- caddero sul loro volto. Cadere sulla faccia (traduz. lett.) è segno di sconfitta (1Sam 17,49), di insufficienza ad essere in contatto col soprannaturale.
- e temettero grandemente. La paura è dovuta al fatto che, in presenza di una manifestazione divina, si ha una quasi-morte (Is 6,5; Dn 10,9).
7 E Gesù si avvicinò e, toccandoli, disse: Alzatevi e non temete.
Ritornano ancora gli elementi della visione apocalittica dell’uomo vestito di lino, contenuta in Deuteronomio.
- si avvicinò e, toccandoli. I gesti di Gesù son gli stessi che Gesù adoperava con gli infermi e i morti per restituire loro vita (Mt 8,3.15; 9,25.29).
- Alzatevi e non temete. L’invito di Gesù ad alzarsi verrà ripetuto nel Getsemani: alzatevi, andiamo (Mt 26,46). L’invito a non temere testimonia l’incapacità dei discepoli ad accogliere il progetto di Gesù (Mt 28,17).
8 Alzando i loro occhi, non videro nessuno se non lui, Gesù solo.
La visione termina bruscamente. Prima che la gloria eterna di Gesù possa assumere forma permanente è necessario che egli affronti la sua croce a Gerusalemme.
9 E mentre essi scendevano dal monte, Gesù comandò loro dicendo: Non dite a nessuno la visione, finché il Figlio dell'uomo non sia risuscitato dai morti.
- Non dite a nessuno la visione. Descrivendo il fatto come visione l’evangelista situa l’episodio sul piano della verità teologica e non su quello della fattualità storica: la trasfigurazione di Gesù appartiene al genere visione o sogno e non alla realtà. Gesù proibisce ai suoi discepoli di parlare della loro esperienza. Essi sono incapaci di seguirlo sulla croce, e non comprendono che la condizione divina passa attraverso la morte.
- finché il Figlio dell'uomo non sia risuscitato dai morti. Solo quando Gesù sarà risuscitato, tutto sarà chiaro e i discepoli potranno parlare di quanto sperimentato.
CONCLUSIONE - riflessione personale
Ascoltare la Parola di Dio significa scoprire la presenza di Dio e accoglierla. Ma si tratta di una presenza irriducibile all’ordine della rappresentazione, come è intesa oggi.
Oggi l’ascolto della Parola di Dio non provoca più il sacro terrore, fatto di stupore riverenziale, di cui parlano i vangeli; provoca piuttosto crisi, perché, a differenza di Abramo che compie il suo esodo dal certo verso l’incerto, nessuno vuole uscire dalle piccole insulse sicurezze che hanno la durata di un soffio.
Oggi non si ascolta e non si legge, perché tutto è ascoltato e letto ma non penetrato. Leggere il vangelo e i suoi commenti con superficialità significa non capirli, nel senso etimologico del te termine capere, far proprio, assimilare.
Restando alla superficie della Parola di Dio, ci si inoltra nella selva delle visioni, della suggestione per le persone carismatiche anziché dei contenuti che esse potrebbero regalarci. Chi, ad esempio, non ammira papa Francesco? ma chi cerca in lui semi di Verità da far attecchire nella propria vita?
C’è da invocare il ritorno alla grande scuola della Mistica cattolica, degna di essere messa a confronto con la grande Mistica Orientale. Parlo in particolare di Teresa di Avila; una sua citazione da il Castello interiore, 1981, può fare capire come bisogna liberarsi da ogni tipo di ammirazione (termine che significa ‘restare incantato’): Nella maturità spirituale le "estasi" scompaiono, in quanto un'autentica esperienza spirituale consente di pervenire ad un miglior equilibrio psicologico, capace di integrare, gradualmente, affettività e ragione, corpo e psiche.
Ma voglio terminare risalendo ancora più lontano, all’opera somma della tradizione mistica giudaica, attraverso pochi versi del  salmo 26:
Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. / Il tuo volto io cerco, o Signore. / Non nascondermi il tuo volto.