sabato 26 maggio 2012

VII di Pasqua - PENTECOSTE


Una lettura ed un commento attraverso l’aiuto del mio amico Lorenzo Tommaselli, e attraverso il mio sentire-la-Pentecoste.

27 maggio 2012 - Domenica di Pentecoste

Giovanni 15, 26-27; 16,12-15
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”.
  
L’azione dello Spirito non consiste nel confortare, ma nel consolare, cioè nell’eliminazione radicale delle cause di sofferenza. L’azione di questo Spirito a favore di tutti i bisognosi di vita e non di quanti – pur ritenendosi investiti – si disinteressano di quelli che hanno più bisogno, renderà chiaro da che parte sta il Padre. In questo passo Gesù non parla di “suo Padre/il Padre mio” ma “del Padre”, perché la relazione con Dio come Padre sarà propria di ogni uomo che risponda alla sua chiamata. Lo Spirito, la forza di vita, è la salvezza che Gesù porta,
La comunità dei credenti è invitata a collocarsi dalla stessa parte in cui si colloca Gesù: i bisognosi di vita. La comunità realizza il disegno del Padre: dare vita all’uomo inviando Gesù, cui comunica pienamente il suo Spirito. Gesù lo comunica ai suoi perché essi continuino la sua opera.
Ciò che Gesù possiede in comune con il Padre è in primo luogo la gloria (l’amore) che questi gli ha comunicato (1,14), in altre parole l’amore leale e fedele (la gloria), lo Spirito (1,32; cfr. 17,10).
Tutto ciò non viene concepito come possesso statico, ma come rapporto dinamico con il Padre, comunicazione incessante e vicendevole, che fa sì che i due siano uno (10,30) e ne compenetra l’attività.

Atti 2,1-11
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano:«Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell' Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti,
Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di
Dio».

Nella Bibbia giudaica la Pentecoste era un’importante celebrazione religiosa di ringraziamento per il primo raccolto, una festa calcolata affinché coincidesse con la maturazione del grano (Es 23,16a; Lv 23,15-20). Era concepita perché fosse celebrata da tutti i popoli, non solo quello di Israele ma anche dagli stranieri (Dt 16,10-11). Poiché la sua data era calcolata contando sette settimane dalla Pasqua ebraica e rappresentava il giorno in cui era offerto il frutto del primo cereale dell’anno (cioè l’orzo che matura prima del grano; Lv 23,15), essa era comunemente conosciuta come la festa delle settimane (Es 34,22a; Nm 28,26; cfr. Dt 16,9-10). La Pentecoste perciò era strettamente legata alla Pasqua ebraica, non solo perché la sua data dipendeva dalla Pasqua, ma perché proprio in questa occasione ci si scambiava il frutto del raccolto.
L’occasione appropriata della Pentecoste per il dono dello Spirito Santo potrebbe derivare dal fatto che essa simboleggia il periodo in cui si raccolgono i primi frutti della nuova creazione scaturita dalla morte di Gesù, cioè i discepoli riempiti con lo Spirito ed emergenti come il centro del nuovo popolo di Dio.
Il parallelismo inoltre concorda col fatto che l’effusione dello Spirito durante la Pentecoste non rappresenta un avvenimento unico che non può più ripetersi ma è semplicemente il primo tra tanti altri: ad ogni stagione si può sperimentare la ricchezza del dono di Dio e della terra.
Sebbene Giovanni il Battista abbia proclamato che colui che verrà dopo di lui
battezzerà “con lo Spirito Santo e fuoco” (Lc 3,16), Gesù ha omesso qualsiasi
riferimento all’aspetto di punizione e di purificazione contenuti nel concetto del fuoco escatologico (cfr. Lc 3,9.17). Con tutto ciò Luca non può ignorare un legame tra il fuoco della profezia di Giovanni e il fuoco adesso rappresentato simbolicamente dallo Spirito, anche se il fuoco della Pentecoste non è simbolo di distruzione ma di vigore di vita. Il significato del simbolo del fuoco ora è chiarito: “e tutti furono colmati di Spirito Santo”, cioè, il gruppo dei discepoli nel suo insieme ed altri (cfr. 2,1).
Il paradigma delle Sacre Scritture per la scena della Pentecoste è complesso
poiché ci sono elementi tratti sia dalla rivelazione sul Sinai (Es 19-24) sia dalla storia di Babele (Gen 11,1-9). Le tradizioni giudaiche, relative all’episodio sul Sinai, spiegavano che tutta l’umanità era presente quando Dio rivelò la Torah e che, sebbene la sua voce si fosse divisa in lingue differenti in modo che tutte le nazioni potessero capire le sue parole, Israele era l’unico popolo pronto per accettare il dono divino. Adesso quando lo Spirito è donato nella nuova rivelazione di Dio, Israele sarà il popolo che lo rifiuterà: è questo un capovolgimento ironico dell’antica posizione giudaica di superiorità. Così Luca, introducendo nella sua narrazione l’intera umanità, sta mettendo insieme dettagli delle tradizioni del Sinai e sta rendendo attuale la storia dell’Esodo.
La storia di Babele è utilizzata da Luca come paradigma. Nel racconto lucano, il riferimento ai popoli “da ogni nazione sotto al cielo” che vivono a Gerusalemme richiama il tema dei popoli provenienti da tutta la terra che si stabilirono a Sennaar dove si costruiva la torre che avrebbe raggiunto il cielo (Gen 11,1-2). È probabile che nella tradizione giudaica la storia di Babele fosse già collegata con la storia del Sinai prima che Luca le utilizzasse in rapporto l’una all’altra; l’effetto prodotto dal loro utilizzo come struttura portante della rivelazione della Pentecoste è quello di insistere molto sulla natura universale del dono divino dello Spirito Santo. Invece della confusione di linguaggio che porta alla dispersione e alla discordia, qui la molteplicità dei linguaggi rende capaci di comprensione ed è fonte di unità delle persone. L’umanità può recuperare la capacità di capire in lingue diverse l’unico linguaggio dello Spirito, ristabilendo l’unità della creazione attraverso l’apertura allo Spirito.

Il mio sentire-la-Pentecoste
Mi guardo attorno. Vedo i cristiani lontani dal “sentire” la Pentecoste, immersi come siamo nel caos della Babele, che sempre insidia l’enegia vitale della Spirito.
Eppure quanto bisogno c’è OGGI della Parola vivificante di Dio!
Vorrei dire al mondo intero ed a ciascuno: leggiamo tutto ponendoci in posizione di distacco rispetto ad una lettura unicamente terrena dei fatti. Ravviviamo la nostra fede. Lasciamo agire la forza del trascendente nel profondo del nostro cuore. Aiutiamoci tutti nella ricerca del collante dell’unità nella ricostruzione del Bene comune dentro ed attorno a noi. Dal caos non si esce senza lo Spirito di Dio. Ausilia  

mercoledì 16 maggio 2012

ASCENSIONE – 20 MAGGIO 2012


ASCENSIONE – 20 MAGGIO 2012
IL SIGNORE FU ELEVATO IN CIELO E SEDETTE ALLA DESTRA DI DIO

Mc 16,15-20
[In quel tempo, Gesù apparve agli Undici e] disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato.
Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
 Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
 Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

Commento di Alberto Maggi OSM
L’ascensione del Signore non separa Gesù dalla vita dei credenti, ma il Signore si inserisce nella loro esistenza potenziandola con una forza, con un’energia ancora più grande di quella che prima potevano aver conosciuto.
 Ci viene proposto l’ultimo brano, l’ultimo pezzo del vangelo di Marco, che però non è di Marco.
Il vangelo di Marco termina al cap. 16, v. 8 con l’annuncio della Risurrezione di Gesù, ma senza le prove delle apparizioni. Questo destò scandalo nella comunità primitiva, per cui negli anni seguenti vennero aggiunte ben tre successive finali a questo vangelo, quella che leggiamo è una di queste. Quindi non è di Marco, non è dell’evangelista, ma è indubbiamente frutto dell’esperienza della comunità cristiana.
Secondo l’autore di questo brano Gesù dice: “andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo a ogni creatura”. La missione dei credenti è di andare, non di rimanere fermi, ma di andare a proclamare che cosa? La buona notizia. Sappiamo che il termine ‘vangelo’ significa ‘buona notizia’.
 E qual è questa buona notizia? Dio non è buono, è ESCLUSIVAMENTE buono; Dio è amore che chiede soltanto di essere accolto. Dio-amore che si offre non per togliere qualcosa all’uomo, ma per potenziare la sua esistenza. E da questo amore di Dio nessuna persona, qualunque sia la sua condotta o il suo comportamento, può sentirsi esclusa.
Questa è la buona notizia: Dio ama tutti in maniera incondizionata, e questo va proclamato ad ogni creatura.
Aggiunge l’autore “chi crederà …” - ‘credere’ non significa aderire, accettare una dottrina, una verità, ma ‘credere’ significa accogliere questa potenza d’amore ed essere disposti poi a comunicarla agli altri. L’amore ricevuto da Dio si trasforma in amore comunicato.
 “… sarà battezzato”. All’inizio di questo vangelo il battesimo era espressione di una
conversione. Per ‘conversione’ si intendeva il ‘cambio di orientamento della propria esistenza: se fino ad adesso ho vissuto per me, adesso ho deciso di orientare diversamente lamia vita e di vivere per gli altri. Come segno di questo cambio c’era questo rito del battesimo.
Quindi chi aderisce a questo amore, lo accoglie e dimostra pubblicamente questo cambio nella sua esistenza, questi è già nella pienezza di vita.
“Ma chi non crederà sarà condannato”. Chi invece lo rifiuta e rimane nel suo egoismo, centrato soltanto sui propri bisogni e sulle proprie necessità, sarà condannato, non da Dio perché Dio è amore e non condanna, ma è lui stesso che si condanna.
Poi ci sono i segni classici che accompagneranno i credenti nella loro missione, è una protezione contro ogni forma di male, in particolare l’espressione finale “e questi guariranno”; beh, il testo greco non è proprio così, il testo greco dice: “e questi staranno bene”. Gesù, il Signore, non ci dà la capacità – magari! – di guarire gli ammalati, ma di far sì che stiano bene, questo sì. Cioè un affetto, una premura, un’attenzione e un servizio in modo che le persona anche nella loro malattia, nella loro infermità, possano in qualche maniera stare bene.
“Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo”.
Quando leggiamo il vangelo occorre sempre distinguere quello che l’evangelista ci dice da come ce lo dice. ‘Quello che ci dice’ è la Parola di Dio e questa è valida per sempre; ‘come lo dice’, l’autore usa le sue abilità letterarie, lo stile dell’epoca.
Allora, in questo brano, si vede chiaramente la distinzione tra ‘quello che l’autore vuol dire’ e ‘come lo dice’. Dice che “fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”.
Cos’è che vuol dire l’evangelista? L’evangelista vuol dire alle autorità religiose: “Quell’uomo che voi avete condannato come bestemmiatore, come eretico, in realtà era Dio. Aveva la condizione divina”.
Quindi non era lui che bestemmiava, come hanno denunciato gli scribi la prima volta che hanno ascoltato Gesù, ma “siete voi i bestemmiatori che non avete riconosciuto la presenza di Dio”.
Come lo dice? Lo dice adoperando gli schemi letterari dell’epoca. Il ‘cielo’ non significa
l’atmosfera, significa la dimora divina, Dio, Dio stesso, e ‘sedere alla destra’: a quell’epoca nella corte, accanto al re sedeva la persona che deteneva il suo stesso potere, un potere simile al suo. Quindi, l’evangelista adopera queste immagini conosciute dell’epoca per trasmettere una verità.
Che l’ascensione non sia una separazione di Gesù dalla vita dei credenti, lo afferma poi l’autore. Infatti dice “essi partirono e predicarono dappertutto mentre il Signore agiva insieme a loro”.
Quindi il Signore non è andato da qualche parte, ma l’evangelista vuol dire che in Gesù si manifesta la pienezza della condizione divina, e questo porta il Signore a rafforzare l’attività, il comportamento dei suoi discepoli.
“E confermava la parola” - ‘la parola’ è la buona notizia, il messaggio, “con i segni che l’accompagnavano”. La parola non è credibile, non è veritiera, se non è accompagnata da segni quali l’amore, il perdono e la condivisione.

PERSONALE
Dio si separa dal punto di vista della visibilità, ma resta presente, anzi agisce in noi. Questa la frase che più mi tocca-dentro. Mi chiedo con insistenza: Cosa faccio per rendere presente visibilmente Colui che è Ponte tra la vera Vita e la vita di ogni giorno? Ausilia

giovedì 10 maggio 2012

VI DOMENICA DI PASQUA - 13 MAGGIO 2012


NESSUNO HA UN AMORE PIU’ GRANDE DI QUESTO:
DARE LA VITA PER I PROPRI AMICI
Gv 15, 917
[In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:] «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Commento di Alberto Maggi
Il segno distintivo di un credente, di un cristiano, è una gioia piena, traboccante, da poter essere comunicata agli altri. E Gesù, in questo brano del Vangelo, ce ne dice il perché. Vediamo. Scrive l’evangelista: “Come il Padre ha amato me". Dio ha amato il figlio, Gesù, comunicandogli il suo spirito, cioè la sua stessa capacità d’amore. “Anch’io ho amato voi”, lo spirito, l’energia, la capacità, la forza d’amore che Gesù ha ricevuto dal Padre, lui la comunica a quanti lo accolgono. “Rimanete nel mio amore”; l’amore Gesù lo ha manifestato nel capitolo 13 lavando i piedi ai suoi discepoli. Il servizio è l’unica garanzia di rimanere nell’amore del Signore. L’amore del Signore, è vero, è credibile, quando si trasforma in atteggiamenti di servizio nei confronti degli altri. L’amore, quindi, non rimane un sentimento, ma un atteggiamento concreto che rende più bella, più leggera la vita dell’altro.
E qui Gesù afferma: “Se osserverete i miei comandamenti”. Lui ha lasciato un unico comandamento, “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”. Le attuazioni pratiche, concrete di questo unico comandamento, quindi tutte le volte che questo comandamento diventerà realtà attraverso forme nuove, inedite, di servizio, di collaborazione, di condivisione, di generosità, questo per Gesù equivale ai ‘comandamenti’.
Ed ecco l’annunzio di Gesù: “Vi ho detto queste cose”, cos’è che Gesù ha detto? Qui siamo al cap. 15, alla metà, nella prima metà Gesù ha paragonato il Padre al vignaiolo. Qual è l’interesse del vignaiolo? Che la vigna porti sempre più frutta abbondante. Quindi è il vignaiolo che ci pensa, che cura, protegge, elimina quegli elementi nocivi che impediscono al tralcio di portare più frutto.
Allora “vi ho detto queste cose”, quali sono queste cose che Gesù ha detto? Di non preoccuparsi di nulla; l’unica preoccupazione del credente, del tralcio, è di portare più frutto, e amare sempre di più. Alla sua vita non ci deve pensare perché ci pensa – e qui il cambio è favorevole al credente – ci pensa direttamente il Padre. Quindi l’invito di Gesù è di camminare nella vita sentendo sempre alle proprie orecchie un Padre che ti sussurra: “Non ti preoccupare, fidati di me”. Questa è la radice della gioia; “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia” – è la gioia stessa di Gesù, e Gesù è Dio, quindi una gioia divina – “sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
La caratteristica del credente è la gioia, una gioia che non dipende dalle circostanze della vita, se le cose mi vanno bene o mi vanno male, se gli altri mi vogliono bene o non me ne vogliono, questa gioia è interiore e viene da questa profonda esperienza. Il Padre si occupa di me perché io ho deciso di occuparmi degli altri. Quindi l’esperienza di sentirsi profondamente amato, questa è la fonte della gioia. E, torna a ripetere Gesù, “Questo è il mio comandamento”. Gesù sottolinea che è il SUO comandamento, per contrapporlo a quelli di Mosè. La norma di comportamento nella comunità di Gesù è l’unico comandamento, quello dell’amore e, infatti, ripete “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato”. E aggiunge: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Qui non significa soltanto il gesto estremo, supremo, del dono fisico della vita per un altro, ma tutta la vita dell’individuo orientata al bene dell’altro. Quindi tutta l’esistenza dell’individuo è orientata verso il bene dell’altro.
A questo punto Gesù – ed è la prima volta nel Vangelo – dichiara che i suoi discepoli sono i suoi amici: “Voi siete miei amici”. Mosè, il servo di Dio, aveva instaurato una relazione fra dei servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza, Gesù, che è il Figlio di Dio, propone un’alleanza non tra dei servi, ma tra dei figli, e non con un Signore, ma con un Padre. Quindi la proposta che ci fa Gesù è una relazione di Figli con il Padre basata sulla somiglianza. Bene, questa relazione porta all’amicizia con Gesù. E Gesù in maniera enfatica dice Non vi ho mai chiamato servi” la traduzione dice “non vi chiamo più servi”, ma in realtà Gesù MAI ha chiamato i suoi discepoli ‘servi’, il testo greco è enfatico dice “no, non vi ho mai chiamato servi!”.
La relazione di Gesù con i suoi discepoli non è quella del Maestro con dei servi, ma una relazione di amicizia. E, alla conclusione di questo brano, “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi perché andiate e portiate frutto”. Il ‘portare frutto’ è condizionato dall’ ‘andare’. Non è un rimanere statici, rimanere fermi ad attendere che gli altri vengano da noi, ma è ‘andare’.
E dove bisogna andare? Seguire Gesù. E Gesù è il santuario visibile dell’amore di Dio che si dirige verso gli esclusi da Dio. Quindi tutte quelle persone che dalla religione si sentono escluse e si sentono rifiutate, questo è il campo della missione del credente.
E’ lì che si porta molto frutto. Se c’è questo, ci assicura Gesù, tutto quello che chiederemo al Padre, nel suo nome – “nel nome” non significa usare la formula ‘per Cristo nostro Signore’, ma nella misura in cui ci identifichiamo con lui e che assomigliamo a lui – stiamo sicuri che il Padre ce lo concede.
NOTE PERSONALI
il passo del Vangelo di oggi è molto denso e temo che pochi abbiano la voglia di ri-leggerlo attentamente attraverso il commento di Maggi. Perciò io mi fermo ad una sola espressione che mi commuove profondamente: AMICI.
E' un termine impegnativo che sciupiamo, spesso anche estendendone il significato o restringendolo secondo le situazioni. Si pensi che anche la parentela, la pietà, la dedizione, possono non rivelare il segreto intimo dell'amore puro qual è l'amicizia: quello di superare ogni criterio umano.
Come raggiungere un tale obbiettivo? Lasciandosi trasformare per un'intera vita dal contatto col Mistero di Dio in noi. Passo dopo passo scompaiono tutte le ombre e l'amore si purifica......... Con Dio lo possiamo. Ausilia   


mercoledì 2 maggio 2012

V DOMENICA DI PASQUA ‐ 6 MAGGIO 2012


V DOMENICA DI PASQUA 6 MAGGIO 2012
Gv 15, 18
[In quel tempo,] Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

RIFLESSIONI SPIRITUALI (CIOÈ UTILE PER LA NOSTRA VITA, CHE TRADUCE IN CONCRETO QUOTIDIANO LA GRAZIA DI CUI GESÙ CI VUOLE RICOLMARE

Ecco la quintessenza del vangelo di questa domenica: Rimanere in Lui, il Ponte tra l’esistenza terrena e quella della Fonte della vita!
a)  Quale senso  avrebbe l’esperienza terrena  se la Vita non fosse oltre l’esistenza temporanea?
b)  Non facciamo delle parole di Gesù [pur sapendo che ci giungono attraverso trascrittori sempre limitati] un motivo di adesione ad un cumulo di verità di ordine secondario; ricordiamo che una delle ‘conquiste’ del Vaticano II è stata la proclamazione della gerarchia delle verità a cui aderire. Se assimiliamo con tutto il nostro essere un modo di pensare e di agire ininterrotto, cioè non distratto da nessun‘altra idea, sia pure la migliore quale quella della pace mondiale, “tutto ci sarà dato”. Senza l’impazienza di volere tutto e subito in stile adolescenziale. La pazienza di attendere nulla toglie, anzi ha molto da aggiungere, ad ogni nostro impegno di vita.
c) Essere unum con Cristo sia la più grande aspirazione della nostra vita. Come vorrei capirlo ogni giorno di più!!! L’illuminazione che si attribuisce a questo o a quel guru della spiritualità – fosse puro un santo – non è altro che un riflesso della forza che scaturisce da Colui da cui ci facciamo-abitare-dentro.