venerdì 29 giugno 2012


La fede e la vita

Marco 5, 21-43
In quel tempo, 21 essendo Gesù passato di nuovo in barca all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22 E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23 e lo supplicò con insistenza: "La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva". 24 Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. 25 Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26 e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27 udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28 Diceva infatti: "Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata". 29 E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. 30 E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: "Chi ha toccato le mie vesti?". 31 I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: "chi mi ha toccato?"». 32 Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33 E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34 Ed egli le disse: "Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male". 35 Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga, vennero a dire: "Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?". 36 Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: "Non temere, soltanto abbi fede!". 37 E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38 Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39 Entrato, disse loro: "Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme". 40 E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41 Prese la mano della bambina e le disse: "Talità kum", che significa: "Fanciulla, io ti dico: Alzati!". 42 E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43 E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

NOTE COL CONTRIBUTO DI PARECCHI AUTORI
a) La folla e Gesù: Gesù torna da Gerasa; la folla che accorre a lui, accettando il suo contatto con gli oppressi pagani, mostra che anch’essa vede in Gesù una speranza di liberazione. Ma quale ruolo gli attribuisce? Certamente la folla è una "presenza" molto ambigua, tanto da costituire un "muro", una "barriera" che non permette una relazione con il Maestro. Ed ecco perché Gesù, prima di compiere il miracolo, crea una certa intimità… un clima di silenzio.
b) Il popolo dei credenti. La cifra ‘dodici’ indica l’età della figlia del capo della sinagoga, e altrettanto indicano gli anni di malattia della donna: è chiara l’allusione alle dodici tribù di Israele, cioè al popolo di Israele. Sia Giairo, [= “Dio illumina/erà” oppure “Dio risveglia/erà” (Nm 32,41; Gdc 10,3)], uno dei capi della sinagoga,  sia la donna emorragica, l’impura, emarginata per principio dal  popolo a cui non appartiene, vogliono da Gesù l’impossibile per l’istituzione; in certo qual modo volgliono eluderla. Gesù risponde cercando di arrivare alla persona perché a Lui preme offrire il segno (il miracolo funziona come segno!) di un nuovo significato da dare alla vita. Segno che ristabilisca l’ordine della creazione: la perennità della vita.  
c) Cosa significa scegliere la vita. Tutto il brano si gioca sul contrasto tra la passività rumorosa della folla e il contatto personale con Gesù, il quale propone all’umanità tutta una fede, non nel miracolo e nemmeno nel suo carisma, nella sua proposta di dare un nuovo senso alla vita. "Due sono le vie, una della vita e una della morte, e fra queste due vie la differenza è grande", così si apre un catechismo della chiesa antica (Didaché 1,1). La Sapienza ammonisce: "distingui bene, respingi la morte, prendi la via della vita". 

Personale
Il brano è pregnante della novità evangelica. Cerco di andare oltre il fascino che esso desta in me e preferisco pormi alcuni interrogativi di fondo.
a) Quale orientamento ha la fede che Gesù focalizza nei due i quali lo cercano? c’è in essi il desiderio di trovare il carismatico, o agiscono dietro la scarsa fiducia nell’istituzione? Le parole e i gesti di Gesù [rileggerli!!!!] vanno anzitutto liberati dalle facili impressioni che poterono ricavare i più vicini alla sua sequela e che ci giungono attraverso i trasmettitori dell’accaduto. Bisogna rileggere attraverso la luce  che proviene dal sentire Dio dentro di sé.
b) Premesse per una risposta: Gesù chiede di avere una vicinanza personale con i due e a tal fine crea un’atmosfera di silenzio e di dialogo. A Lui preme giungere al cuore di chi lo implora. E lo trasporta verso il mistero nascosto al di dentro delle situazioni cruciali di questa vita precaria ed intessuta di morte.
c) Unica risposta: La fede di cui parla Gesù è quel seme di Vita che è in noi fin dal momento della creazione, e ribadito tramite un patto d’amore: l’Alleanza  Antica e la Nuova.
d) Quale metodo per nutrirci di vera fede? Ricordarsi che la fede non è volontà di assicurarsi la vita, ma è risposta di amore al dono di Dio. Per chi crede la vita non finisce perché è tutt’uno con la VTA DI DIO. Ausilia
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  Oggi si può, giustamente, parlare di fede e di coerenza con la fede, cioè si distingue il credere (convinto) dalla condotta che può contraddire la fede stessa. Il linguaggio evangelico, invece, è diverso, almeno in questo caso. L’”abbi fede” significa “aderisci totalmente al me, abbandonati a me, consegnati a me... “, in cui è implicito tutto l’operare cristianamente. Quel linguaggio evangelico offre un significato pregnante di fede, lontano in quel contesto, dal supporre la possibilità di credere e disattendere nello stesso momento. Una conclusione? La semplice constatazione di un linguaggio diverso, che mi aiuta a comprendere meglio il vangelo. Armando

sabato 23 giugno 2012

24 giugno 2012 il Precursore


NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

Luca 1, 57-66.80
57 Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58 I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. 59 Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. 60 Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61 Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62 Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63 Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64 All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65 Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66 Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
 80 Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

Alcune note da commenti consultati
* Dare il nome significa riconoscere di fatto che il progetto di Dio su Giovanni (= Dono di Dio/Dio ha avuto misericordia”) è diventato realtà. Il “sordo/mutismo” di Zaccaria non era un castigo fisico. Fu conseguenza della sua incredulità e della sua opposizione al progetto di Dio. Ora può parlare, perché è in sintonia con il piano di Dio. La benedizione enunciata qui si espliciterà nel cantico di Zaccaria (cfr. Lc 1,68-79).
* Zaccaria, sacerdote, l’uomo della tradizione è d’accordo con Elisabetta? Perché questo figlio non si deve chiamare come il padre? “In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua e parlava benedicendo Dio”: è il cambiamento di Zaccaria: diventa profeta. Il nuovo che Gesù porterà con pienezza, si fa strada: diventare profeti!
* Il racconto su Giovanni si chiude con una sintesi/riassunto finale che serve da passaggio alla nascita di Gesù. Viene sottolineata la sua crescita fisica, il consolidamento della sua personalità e la sua vita solitaria, senza contatto con gli uomini, nel deserto, dove il bambino “cresceva e si fortificava nello spirito”.
* [Il contatto di Giovanni con la setta degli Esseni nella zona del Giordano e, più concretamente, come membro della comunità essena di Qumran rimane una semplice congettura. Potremmo riscontrare paralleli tra il pensiero e l’attività di Giovanni e la forma di vita e le aspettative della comunità di Qumran, ma è molto improbabile che Giovanni fosse membro di tale comunità, anche se poteva benissimo aver saputo della sua esistenza e aver subito la sua influenza.]

Riflessioni personali di Ausilia
Mi chiedo perché questo bambino dovrà sviluppare nel deserto il suo ‘essere dono’: proprio lui, il precursore di Gesù, le cui opere si realizzeranno sulla strada, tra gente di ogni tipo, tra cui si mescolerà occupandosi delle malattie nel corpo e nello spirito. Mi do la risposta che il deserto è, anche simbolicamente, idoneo al distacco dalle ‘regole’ del mondo, e cioè al lavoro ascetico di presa di distanza dalle cose della terra per lasciarsi scavare dal dono di Dio nell’interiorità.
La meraviglia, il timore, la consapevolezza di non capire pienamente, quale si deduce dal Vangelo di Luca, mettono in rilievo la necessità di
a) abbandonare poco a poco la fiducia nelle certezze sensibili offerte in soccorso provvisorio alle impazienze umane di possesso di una verità realizzata del tutto, ‘definita’ una volta per tutte;
b) stare attenti ai ‘segni’ dell’annuncio: e oggi a quelli dell’oggi;
c) continuare ininterrottamente a dare spazio al Mistero nell’interiorità e nel concreto quotidiano.

sabato 16 giugno 2012

XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Anno B - 17/06/12

Marco 4, 26-34

In quel tempo, 26 Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno. 27 Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28 Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29 e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
30 Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31 È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32 ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
33 Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34 Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Commento attraverso Lorenzo Tommaselli ed i suoi maestri.
Sotto forma di parabole, Gesù espone ora i due aspetti del messaggio: quello individuale, la genesi dell’uomo nuovo, e quello comunitario, lo sviluppo e le caratteristiche della società nuova.
Gesù si rivolge di nuovo alla folla ed espone in due parabole il segreto del Regno, i due aspetti o tappe del regno di Dio. Nella prima parabola propone l’aspetto individuale, l’uomo si realizza mediante un processo interno di assimilazione del messaggio, che culmina nella disposizione al dono totale (il frutto [=l’uomo] si consegna/è maturo). La semina avviene sulla terra, per indicare l’universalità (cfr. 2,10), e colui che semina deve rispettare questo processo interiore. La mietitura rappresenta il momento in cui l’individuo si inserisce pienamente nella comunità; sia nella sua fase terrena che in quella finale (cfr. 13,27).
Nella seconda parabola espone l’aspetto sociale del Regno; partendo da inizi minimi deve estendersi a tutto il mondo, ma senza lo splendore né la magnificenza.Non c’è continuità con il passato (seme nuovo e non ramo dell’antico cedro, come in Ezechiele). Tanto meno si colloca su un alto monte come nel testo profetico, ma sulla terra, indicando universalità; il risultato sarà una realtà dall’apparenza modesta, ma che offrirà accoglienza ad ogni persona che cerca libertà (gli uccelli del
cielo). Il Regno, quindi, esclude l’ambizione del trionfo personale e dello splendore sociale.
Gesù lavora pazientemente con la folla e continua ad esporle il messaggio con altre parabole. Il gruppo dei discepoli (4,10: i Dodici), che non abbandona l’ideologia del giudaismo, continua a non capire, è al livello di quelli di fuori. Gesù non lo abbandona; spiega loro il significato delle parabole che avrebbero dovuto capire da soli. L’altro gruppo non compare più: dopo la precedente esposizione di Gesù ha capito il segreto del Regno e si è reso ideologicamente indipendente dai Dodici.
Riflessioni
Da un seme pieno, un albero; da un albero vigoroso, frutti saporosi, che sono per l’uomo: per la sua vita, le sue relazioni, i suoi cammini quotidiani e faticosi. E per questo l’uomo loda Dio e ringrazia la sua terra.
Un seme è come il Regno, piccolo e grande, limitato ed esplodente, semplice e virtuoso, singolo ed universale. Così ogni vita. È il ritmo di nascita e di crescita, d’inizio e di sviluppo: origini e maturità. Da qui prende inizio l’uomo, gli uomini, famiglia, gruppo, comunità, umanità. E tutto questo è Regno di Dio. Ed è Lui che ha alimentato i semi, spargendoli a piene mani, e tutte le cose
hanno cominciato ad esplodere di vita: le acque hanno coperto la terra, i cieli sono diventati infiniti, l’universo si è dilatato. Anche l’uomo si è formato di semi speciali, pieni di vita e di spirito, simile a quello eterno di Dio: del Padre creatore, del Figlio generato, dello Spirito donato.
Questo è il regno dell’uomo che crea e pone in essere, che genera e dona amore, e fonda comunità di amore. Diventa egli responsabile della vita, della crescita del dono divino, e si fa accogliente e proponente, allungando mani benedicenti, dilatando spazi senza riserve, perché in questo Regno c’è posto per tutti. a) Per chi non ancora ha pensato Dio e parlato con Lui. E perciò cerca e aspetta, per trovare riferimenti ed offerte di solidarietà, di giustizia, di lealtà, di condivisione di progetti di speranza. b) E nei perimetri di questo Regno potrà trovare risposte e proposte per chi ancora è confuso e non riesce a leggere segni divini e si incammina per trovare grammatiche e registri per apprendere nuovi linguaggi di carità, nuovi significati che appartengono a questo Regno, e comincia ad imparare parole e gesti di pace, di perdono, di dono, di comunione, di confidenza con Dio che abita in questo recinto senza confini. Questo è il Regno di Dio.
E tutto è nato da quel seme, piccolo-umile, pieno-vitale, vivo-donante, come il cuore di Dio, come i cuori delle donne e degli uomini, di Chiesa, della società, dell’umanità. Che vivono, lavorano, intrecciano relazioni, svolgono compiti sociali o politici, fanno liturgie, senza dimenticare Dio, senza distrarsi da chi cammina accanto, senza badare solo ad utili ma investendo anche in amore, condiviso e partecipato. E con umiltà cosmica servono la terra e gli uomini tutti, con la medesima ansia dell’inventore del nuovo regno di amore donante.

Personale , dando sviluppo a ciò che ho sottolienato in rosso (sopra).
Al solito i teologi progressisti (verso i quali non manco di stima) sottolineano l’apetto di discontinuità tra vecchio e nuovo. Io modestamente trovo che la rivoluzione di Gesù è, per così dire, anti-ideologica: contro l’irrigidirsi di ogni forma religiosa e non. Quando vorremmo che la parola nuova dischiudesse una volta per tutte l’ingresso nella Verità assoluta facciamo anche noi un’operazione ideologica, sia pure di segno contrario alla precedente. Gesù apre spazi di libertà interiore che debbono tradursi in opere e soprattutto in una mentalità che non è stata buia nel passato e luminosa soltanto ora. Egli sa di non essere capito e spiega ogni cosa  in privato (v.34), cioè nell’intimo delle coscienze. La purezza e l’universalità del messaggio evangelico non saranno mai riprodotte totalmente da nessuna comunità-chiesa e da nessuna società organizzata. Gesù ci vuole buoni seminatori in grado di resistere alla cristallizzazione della verità in formalismi vecchi e nuovi (ed è già un ‘capire’ interiorizzato vedere che nessuna comunità umana ne è esente). ‘Vitale’ e ‘mortale’ non sono mai disgiunti, come crocifissione e risurrezione. Bisogna inserirsi in un processo di liberazione, che nessuna forzatura potrà accelerare. La luce della Fede esige l’umiltà e la pazienza dell’attesa fiduciosa. Ausilia

venerdì 8 giugno 2012

Corpus Domini 10 giugno 2012



QUESTO E’ IL MIO CORPO, QUESTO E’ IL MIO SANGUE

Mc 14,1216.2226
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Qualche commento
La festa del Corpus Domini istituita dal papa Urbano IV nel 1264, per ispirazione di una religiosa mistica, Giuliana di Cornillon, si considerò, nel secolo XIII, come la massima esaltazione dell’eucaristia.
Marco struttura il racconto della cena del Signore su quanto si legge nel Libro dell’Esodo al termine dell’alleanza. Nel capitolo 24 si legge che Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo, poi prese il sangue e ne asperse il popolo e disse “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”.
* Nella frase in Marco: Gesù ”prese il calice”, è da notare che, mentre prima per il pane ha adoperato il verbo ‘benedire’ (eÙlogšw) – un termine conosciuto nel mondo ebraico –, per il calice usa il verbo ‘eÙcaristšw’, ‘ringraziare’, da cui deriva poi la parola Eucaristia. Perché questi due verbi differenti e non ha usato per esempio lo stesso ‘benedire’ entrambe le volte? L’evangelista si rifà alle due moltiplicazioni dei pani. Nella prima, in terra ebraica, Gesù benedì il pane (Mc 6,41); nella seconda, in terra pagana, Gesù rese grazie (Mc 8,6). Allora nell’Eucaristia l’evangelista vuole radunare questi due elementi: Il sangue di Cristo non è soltanto per il popolo d’Israele, ma è per tutta l’umanità.
* Perché ci è giunta la versione “per molti”? E’ da notare che la lingua ebraica non conosce un aggettivo che indichi «tutti», ma soltanto un sostantivo maschile che delimita più complessivamente «la totalità» (ebr.  kōl); perciò con ‘molti’ si vuole ildicare la moltitudine delle genti.

Una nota personale di Ausilia
In alcuni commenti la differenza tra l’antica Alleanza (di cui in Esodo 24) e la Nuova viene evidenziata nel senso che nella prima l’osservanza dei precetti divini sarebbe riduttivamente legata a fattori esterni di osservanza, mentre nella seconda prevarrebbe il carattere spirituale, intimo, d’amore per Dio, a discapito di ogni aspetto spiritualistico. Una divisione accentuata porterebbe entrambe le due posizioni ad un eccesso, quasi che, prima, il rapporto con Dio fosse unicame nte legato a fattori esterni e, dopo, questi ultimi siano da ritenersi superflui.. Chi ha letto con intelligenza d’amore certi passi riferiti al popolo ebraico sa trovarvi un’intensa spiritualità; altrettanto sa trovare nel senso profondo che hanno la sacramentalità e la liturgia nella chiesa cattolica. Io posso testimoniare che la mia fede, fin da quando ero fanciulla, ha trovato nell’Eucarestia ben altro che il ritualismo (forse anche incoraggiato da certo modo di amministrare i sacramenti da quella parte di clero più ligio alla forma anziché agli elementi vivi, sempre da alimentare).  




domenica 3 giugno 2012

SS. Trinità - 03.06.12


Festa della ss. trinita’ - domenica, 3 giugno 2012
(elementi utili da http://www.zenit.org/)

Vangelo
Matteo 28,16-20
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Commento
La scena si apre con «undici discepoli». Non sono il gruppo dei puri, dei perfetti, non sono più dodici; uno di loro ha tradito il Signore, uno lo ha rinnegato, e gli altri sono fuggiti. Gli “Undici” posseggono una fede ambigua, incerta, in via di definizione: la loro reazione di fronte al Risorto è un misto di adorazione e dubbio. Essi rappresentano tutti noi. Il Risorto ci incontra nella nostra situazione concreta; non aspetta che siamo perfetti per affidarci la nostra missione. Compare Cristo, il Signore del cielo e della terra. La sua signoria non significa dominio, ma servizio, responsabilità, dono di sé. Egli è il Signore perché ha accolto l’umiliazione, è il Dominatore perché è passato attraverso il servizio. Egli non esercita l’autorità senza la cooperazione dell’uomo.
Si diventa discepoli mediante l’immersione (bàptisma in greco, da cui “battesimo”) nel Nome (al singolare) del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Essere «immersi nel Nome» significa venire inseriti in Dio, morire a una situazione di peccato, limite, paralisi e tenebra, per rinascere a una realtà di luce, dinamismo, possibilità, pienezza di vita. Il discepolo, una volta inserito nel Nome, si mette alla scuola di Gesù: ne apprende l’insegnamento, lo accoglie come Maestro e Signore, cresce nella capacità di fare di sé un dono per la salvezza del mondo. Il Vangelo termina senza l’ascensione del Signore, Gesù non ritorna al cielo, come negli altri Vangeli, ma rimane sempre con noi, l’Emmanuele (Mt 1,23). Non se n’è andato, è qui, e non se ne andrà mai, non ci lascerà mai soli nelle tenebre della storia.
L’unico Dio si è rivelato in modo speciale a Israele. Egli è Altro, trascende i nostri schemi e, d’altra parte, è più vicino a noi di noi stessi, ci conosce. La complessità di Dio viene specificata nel Nuovo Testamento: all’esortazione di Gesù, di battezzare «nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», fa eco la descrizione tracciata da san Paolo del dinamismo trinitario nella vita del cristiano. Poiché lo Spirito è la relazione tra il Padre e il Figlio, costituisce anche la relazione tra Dio e l’uomo, assimilando il credente al Figlio.

Preghiera personale
Mistero di Dio, che ti inabissi nell’Alterità trascendente in una dinamica di amore, resterai incomprensibile ed assente se non ti faccio posto nella mia vita: più Tu-Altro trovi spazio in me, più io faccio della mia alterità di creatura uno strumento della continuazione della tua opera creatrice e ri-creatrce.
Il compito che mi affidi è immenso: trasborda e sfonda i confini di un cristianesimo di semplici battezzati-registrati.
Tu che sei Dio per tutti, non permetterai alle forze del male di prostrare l’umanità nell’inanità di una vita senza senso. il mondo langue senza la Tua presenza vivificante nella storia.