venerdì 27 ottobre 2017


DOMENICA XXX T.O. anno A

 

Matteo 22:34-40

 

34 Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35 e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36 «Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?». 37 Gli rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38 Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. 39 E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

C o m m e n t o

 

1) NOTE ANALITICHE
Matteo, seguendo il filo del resoconto di Marco, racconta l’ultima settimana di vita di Gesù, il quale, dopo il suo ingresso nella città santa, affronta due serie di incidenti: scontri con le autorità giudaiche e controversie con i capi dei movimenti giudaici.
Nella controversia sul comandamento più grande i due evangelisti, Matteo e Marco, procedono di pari passo, pur avendo alcune significative differenze nei dettagli. Anche Luca riporta questa controversia, ma la situa nella sezione del viaggio verso Gerusalemme, abbinandola alla parabola del buon Samaritano.
Nella pericope di questa domenica ancora una volta c’è qualcuno, uno scriba, che si fa avanti come portavoce della comunità e interroga Gesù per metterlo alla prova.
Mentre in Marco lo scriba chiede qual è il primo comandamento di tutti, Matteo trasforma così la domanda: qual è il più grande comandamento della legge? In questa domanda si riflette la preoccupazione, diffusa anche tra i rabbini, di trovare una formula che fosse l’origine, il fondamento e la sintesi di tutta la Toràh.
Per i farisei (che erano riusciti ad affastellare la Legge con 365 proibizioni (quanti i giorni dell’anno) e 248 precetti (quante le componenti ossee del corpo umano) per un totale di 613 regole da osservare!) il comandamento più importante, secondo le tesi prevalenti delle scuole rabbiniche, era il riposo del sabato; una tesi che aveva le sue radici nel libro della Genesi, dove si narra che Dio, terminata la Creazione nel settimo giorno, cessò di creare. Considerato il più importante dei comandamenti, la sua osservanza equivaleva all’adempimento di tutta la Legge. Al contrario, la disobbedienza del sabato equivaleva alla trasgressione di tutti i comandamenti e veniva punita con la morte (Es 31,14).
La risposta di Gesù è sconvolgente. Cita l’affermazione tratta dal credo di Israele: Shemà Israel, Ascolta Israele, che gli ebrei recitavano due volte al giorno; continua con le parole del Deuteronomio: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; quindi aggiunge, con le parole del Levitico, un secondo comandamento simile, homoiôs al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Con queste parole, assenti in Marco, Gesù vuol far capire che i due comandamenti in realtà ne formano uno solo. Il secondo è ricavato anch’esso dal Levitico, dove appare all’interno di una raccolta di comandamenti etici, disposizioni rituali e precetti casistici. Il concetto di prossimo era però limitato ai propri connazionali e ai forestieri residenti, e quindi era negato a tutti coloro che non facevano parte del proprio gruppo.
Mentre in Marco Gesù conclude affermando che non vi è comandamento più importante di questi due, secondo Matteo Gesù commenta: Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti. Il verbo dipendere, kremannymi, indica l’essere originato e il convergere. Il binomio legge e profeti usato da Matteo in altre due occasioni, ambedue nel discorso della montagna, significa la legge interpretata alla luce della predicazione profetica.
Una nota: Matteo è l’unico a non aggiungere l’espressione “con tutta la tua forza’. Ciò potrebbe avere la spiegazione nel fatto che questa legge, essendo legge d’amore, non può essere ‘forzata.
Proseguendo su questa linea Gesù metterà in primo piano l’amore del nemico, cioè di colui che si situa all’esterno del popolo o della comunità. L’amore del prossimo ha quindi senso solo se è capace di abbracciare anche i nemici; altrimenti rischia di diventare una nuova forma di egoismo, in cui l’altro viene amato in funzione di quanto può dare in cambio. L’amore non consiste in un generico volersi bene o nell’assistenza in caso di bisogno, ma nel saper vivere in un rapporto costante con gli altri, dando vita a quella realtà profonda e complessa che genera la sana convivenza.
Matteo chiude qui il dibattito, omettendo di parlare della reazione entusiasta suscitata nel suo interlocutore.
E’ chiaro che l’impostazione del concetto di legge data da Gesù nel racconto di Matteo, non può non avere, come conseguenza, una certa relativizzazione della legge stessa. In contrasto con il giudaismo dell’epoca, sarà il cristianesimo delle origini a dare pieno valore al principio che nessun precetto può essere imposto, in quanto senza amore perde la sua validità (sviluppi, questi, da attribuire alla elaborazione dei primi cristiani.

 

2) APPROFONDIMENTI PERSONALI

 

a) Premessa

= Fa pensare questo ritratto di Gesù che inaugura la Nuova Legge dell’Amore. E’ perciò legittimo, se non doveroso, porsi delle domande. Ne esprimo qualcuna.

Come poteva il vangelo (sia di Matteo sia degli altri evangelisti) far parlare Gesù ed inserirlo in un contesto narrativo consequenziale nelle sue parti e soprattutto nel contenuto, a cui poteva giungere soltanto un lungo percorso, quale quello compiuto dalle prime generazioni cristiane?
E’ certo che la stessa ricostruzione dei fatti e relativi discorsi ci giunge da evangelisti non del tutto concordi; e non è da trascurare la ricca produzione di apocrifi che aggiungono od omettono tanti particolari ed hanno visioni delle cose del tutto diverse l’una dall’altra.
Questi pochi cenni a questioni aperte mi permette di fare un approfondimento fuori dai soliti schemi.
= Mi avvicinerò all’argomento dell’amore del prossimo in maniera personalissima, irrituale e a tratti - spero che non la pensiate così! - alquanto irriverente.
Vorrei spiegare il tutto con parole semplici. Ci provo, ma temo di non farcela a tenermi lontana dalla bonomia di chi, per commentare il vangelo, lo racconta usando parole sue per ripetere le stesse cose che sono scritte nel vangelo.
= Per semplificare entro nell’ambito del simbolico, scomodando la geometria piana, cioè quella parte in cui le figure sono disposte su una superficie piana.
= Descriviamo cos’è un triangolo
Ci sono la base e i due lati, convergenti verso un…….punto.
La realtà del triangolo è fatta di punti, che sono tutti indispensabili, non sovrapponibili, collocati ciascuno in un proprio singolo spazio, e perciò diversi l’uno dall’altro. Si nota subito che i punti realizzano tutti assieme la stessa ‘UNITA’. Se uno mancasse, o volesse essere diverso stando fuori dall’unità, scomparirebbe al nostro sguardo; ciò che ciascuno di essi è dipende dall’essere in quel triangolo.
Ma c’è amore del prossimo in una unità costrittiva di tipo geometrico?
La risposta potrebbe essere questa: abbiamo parlato di una realtà simbolica dove si vuole significare la necessità dello stare insieme, finalizzata ad esprimere il mistero. preciseremo di seguito.

 

b) Dal simbolo alla realtà

= Immagino di essere io (la stessa cosa vale per voi) un punto, collocato tra tanti altri (anzi, in geometria, infiniti altri), alcuni vicini tra loro, cioè la famiglia, gli ambienti in cui sono stata; altri lontani lontani l’uno dall’altro.
= Guardando la figura del triangolo, non c’è chi non possa capire che tutti i punti sono protesi verso l’apice. Come mi intriga il punto in alto che non riesco nemmeno a capire se si sprigiona dal lato di destra o dal lato di sinistra! Proprio qui è il bello. È a centro, in alto, quasi che voglia stare con tutti i punti del triangolo o quasi voglia lasciarli per sperdersi solo… chissà, nell’infinito, dove, forse, tutti i punti vorrebbero sperdersi.
Il discorso, trasferito agli umani, suona così: tutti, chi in un modo chi in un altro, tendiamo ad una fantasmatica felicità, fatta di realizzazione e di pienezza (ma questa, essendo nel TEMPO, non è mai piena e duratura; e perciò è immaginata in un altro mondo più perfetto). La geometria ritrae simbolicamente un mondo completo in ogni figura;e non si può negare che nella realtà l’essere umano non potrebbe vivere la sua finitezza come imperfezione, pena una grande sofferenza e tentativi di  scavalcarla, o meglio, di oltrepassarla 
= E se il punto-apice fosse simbolo di Dio? E se l’aldilà fosse Dio? se fosse il Dio intimo a tutti e che tutti trasporta a Sé?
Qui è logico pensare al concetto di libertà. Senza la libertà non si è creature di Dio, non si è esseri umani, non si può tendere alla perfezione. L’apice è per persone libere che scelgono, aspirano, corrono verso un fine. Il dubbio è generato dalla confusione che abbiamo sull’idea di libertà. La libertà non significa che ogni punto potrebbe andarsene a spasso per conto suo. La libertà è inerente alla scelta soggettiva, non al fine verso cui tendere. Certamente io sono libera di fare di me ciò che voglio fino a distruggermi, ma, se voglio qualcosa, debbo sottostare a quel qualcosa. Guai se il fine non fosse l’apice dei nostri desideri, delle nostre scelte: senza un punto saldo di riferimento, si sfalda il senso di responsabilità necessario alla realizzazione di un fine. Mi viene da dire che la geometria esprime il regno della necessità finalizzata: un po’ come noi? 
 
c) Il prossimo oltre il senso comune
- Per tutti il prossimo si rende palpabile nello lo stare assieme di persone che tendono allo stesso fine.
- Una domanda intrigante: è mio prossimo il gatto che ho come amico o almeno come qualcuno con cui confortarmi (o meglio, credendo di fare bene a lui per confortarmi io)??
- Mi pare che non si possa definire prossimo lo stare assieme per pura costrizione e/o per confortarsi reciprocamente.
- Il prossimo evangelico non si può applicare ad ogni ACCOMUNAMENTO, tanto meno se non ci si ispira ad un PRINCIPIO, un IDEALE, o semplicemente un OBIETTIVO.

 

d) Il prossimo attraverso la teologia (quali rischi nei discorsi generici)

Amare significa continuare, prolungare nel tempo, l’azione divina.
Il primo rischio è quello dissolvere l'amore di Dio in quello del prossimo o al contrario di ridurre l'amore verso il prossimo in quello verso Dio.
- Infatti, quando si afferma che l'amore da Dio è la motivazione dell'amore verso il prossimo, si rischia di vedere il perché ultimo dell'amore del prossimo, soltanto nell'amore verso Dio. ciò è come dissolvere Dio in un incerto supererogatorio orizzonte di senso che sostiene a livello motivazionale l'amore del prossimo; l'amore di Dio si colloca come causa unica dell'amore del prossimo, finendo per screditare l'esperienza mistica in senso stretto e la contemplazione.
- Al contrario si può cadere nella tentazione di considerare il prossimo come un incidente strumentale per amare Dio. Se si ama Dio nel prossimo attraverso il prossimo, si rischia di non amare la persona per quello che è, ma meramente come mezzo funzionale all'amore verso Dio. Compio un atto caritatevole e così mi guadagno l’amore di Dio, cioè il Paradiso”.
L'amore del prossimo deve invece essere autentico, deve raggiungere il Tu nella concretezza storica della sua singolarità e unicità.
- Anche il trovare senso soltanto Dio nell’amare il prossimo, si sminuisce l’atto dell’amore sia del donante sia del ricevente: io, invece, amo perché mi sono formato nell’amore, sia perché l’altro lo merita, ha in sé valore, sia perché ho compassione …
- Invece bisogna coltivare l'humilitas [la parola viene da humus, terra; essere umili comporta essere aderenti alla terra (in geometria corrisponde alla base)], da intendere come coscienza del proprio fondamento in Dio; e ciò senza estraniarmi da me e dal mondo. Se nell'amore del prossimo si pone un a-priori (l'amore verso Dio prima che verso il prossimo), si rischia di non amare più veramente e concretamente il prossimo; e, se si perde l'intima connessione originaria tra le due dimensioni dell'amore, si finisce per restare impigliati in un dualismo che riduce l'amore verso Dio a misticismo disincarnato e l'amore verso il prossimo a filantropismo.
Amore verso Dio e amore verso il prossimo debbono essere vissuti nella loro piena autonomia e debbono essere posti in reciproca interazione, rimanendo però separati e a-vversi (da ad-versus: dove l’uno va verso l’altro e viceversa).

 

3) PREGARE L’AMORE

 

a) Da M.Teresa di Calcutta:

Signore, insegnami a non parlare come un bronzo risonante o un cembalo squillante, ma con amore. Rendimi capace di comprendere e dammi la fede che muove le montagne, ma con l'amore. Insegnami quell'amore che è sempre paziente e sempre gentile; mai geloso, presuntuoso, egoista o permaloso; l'amore che prova gioia nella verità, sempre pronto a perdonare, a credere, a sperare e a sopportare. Infine, quando tutte le cose finite si dissolveranno e tutto sarà chiaro, che io possa essere stato il debole ma costante riflesso del tuo amore perfetto.

 

b) Guardando alla realtà di oggi, pregando ed agendo, per quanto possibile, per essa.

 

O Dio, Ti sento dentro di me, ed eccomi:

ti restituisco i tuoi doni e le mie debolezze.

Strappami ciò che resta del mio io e che non so domare:

lo voglio immergere nell’abisso del Tuo amore

ed in esso farlo sommergere.

Voglio mettere al primo posto tutti, proprio tutti,

soprattutto chi mi ha dimenticato od offeso.

Ma prima ancora ti prego per chi è privo di libertà,

per chi non sa amare né soffrire né redimersi.

Stretta a Te, mia Roccia,

vedo tutto il bene e il bello del mondo,

vedo i feriti nel cuore, divenuti induriti

privi di amore, nocivi a sé e agli altri.

o Dio, Tu non mi comandi di amarli:

sei dentro di loro come in me nella comune miseria.

O Dio Silente, per loro ti prego a bocca chiusa

e Ti restituisco la follia d’amare che mi hai contagiato,

o Amore, o Tutto, o Gioia, o Festa  perenne

…..

venerdì 20 ottobre 2017

DOMENICA XXIX T.O. anno A


DOMENICA XXIX T.O. anno A

 

Is 45,1,4-6

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: / «Io l’ho preso per la destra, / per abbattere davanti a lui le nazioni, / per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, / per aprire davanti a lui i battenti delle porte / e nessun portone rimarrà chiuso. /  Per amore di Giacobbe, mio servo, / e d’Israele, mio eletto, / io ti ho chiamato per nome, / ti ho dato un titolo, / sebbene tu non mi conosca. / Io sono il Signore e non c’è alcun altro, / fuori di me non c’è dio; / ti renderò pronto all’azione, / anche se tu non mi conosci, / perché sappiano dall’oriente e dall’occidente / che non c’è nulla fuori di me. / Io sono il Signore, non ce n’è altri».

Sal 95

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
      Grande è il Signore e degno di ogni lode,
      terribile sopra tutti gli dèi.
      Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,
      il Signore invece ha fatto i cieli.
Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri.
      Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
      Tremi davanti a lui tutta la terra.
      Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
      Egli giudica i popoli con rettitudine.

1Ts ,1-5b

Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

 

Mt22,15-21
In quel tempo, 15i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?. 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?. 21Gli risposero: Di Cesare. Allora disse loro: Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.
C o m m e n t o
 
1) NOTE ANALITICHE
 
= Dopo la parabola degli invitati a nozze che hanno rifiutato l’invito per i loro interessi personali, la casta sacerdotale al potere non mostra segni di pentimento, tanto meno di conversione.
Intanto inizia una serie di attacchi contro Gesù da parte dei farisei, degli erodiani, dei sadducei e di un dottore della legge: Gesù è un pericolo da eliminare e bisogna trovare il cavillo per metterlo in contraddizione, in modo da fargli perdere il prestigio di cui gode presso la folla.
Siccome l’evangelista costruisce di sana pianta l’evolversi dell’episodio, le trappole tese a Gesù sono congegnate ad arte, tanto da apparire ritratto della realtà concreta. Sennonché Matteo, concorde in larga parte con Luca e Marco, tratta l’argomento fondamentale -  il rapporto dei discepoli col potere romano che li ha soggiogati - attingendo a riferimenti lontani, in modo particolare all’apocrifo Il vangelo di Tommaso, dove si legge la celebre frase finale della pericope - Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio,
che si rifà nel contenuto a molte espressioni sparse nella ricca produzione di Paolo di Tarso, senza che risulti citata dall’apostolo. Molti interrogativi restano aperti.
16 - Uniti ai discepoli compaiono per la prima ed unica volta nel vangelo gli erodiani: sono gli appartenenti al partito che appoggia la dinastia degli Erodi al potere. La loro presenza è giustificata dal fatto di rappresentare il braccio armato dell’azione intrapresa dai farisei; ma, mentre questi detestano i Romani, gli erodiani sono collaborazionisti degli esosi dominatori.
Il gruppetto che fa da portavoce si rivolge a Gesù chiamandolo Maestro, titolo che è quasi sempre in bocca agli avversari di Gesù. La domanda, formulata con ossequiente linguaggio curiale, mette in evidenza l’immagine che i farisei hanno di Gesù: lodano il coraggio e la libertà che caratterizza la sua condotta nel manifestare il proprio pensiero; al contrario essi ambiscono soltanto di essere ammirati e benvisti dalla gente (lett. dagli uomini Mt 6,2.5). E’ davvero strano che essi vogliano cogliere in contraddizione colui che poco prima hanno lodato per l’equanimità nell’esprimere giudizi, proprio mentre loro stessi fanno il contrario.
Il preambolo della domanda, fin troppo adulatorio, sembra quasi una provocazione; e di fatto e ottiene, da parte di Gesù, parole di biasimo (ipocriti). E’ da osservare dove è la trappola: il dire non guardi in faccia agli uomini potrebbe sembrare un'istigazione a sfidare il potere di Cesare.
17 Il tributo di cui parlano i farisei era la tassa pro-capite imposta dai romani dopo che la Palestina, nel 6 a.C. era stata conquistata. La domanda a Gesù - è lecito? - non riguarda un semplice parere, bensì è volta a voler sapere quale è, secondo l’interrogato, la soluzione di una questione di carattere morale molto più importante che un semplice giudizio.
L’argomento in sé esula da ciò che Gesù è solito proporre. Ma la trappola è ben congegnata: qualunque sia la risposta che Gesù darà, gli verrà ritorta contro: se Gesù è favorevole al pagamento delle tasse all’imperatore romano, un pagano idolatra, egli verrà meno a quanto è prescritto nel Libro del Deuteronomio: Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore (Dt 6,4); da qui la supremazia di Dio rispetto ad ogni potere terreno. Ma con tale risposta, Gesù avrebbe riconosciuto la legittimità dell’occupazione e si sarebbe alienata la simpatia di quanti vedono in Lui un liberatore. D’altro canto, se Gesù avesse risposto con un invito a non pagare il tributo, la sua posizione sarebbe stata intesa come atto di ribellione politica.
18Quindi è legittima la protesta di Gesù: Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?
19-21 - Matteo era interessato a mostrare la capacità di Gesù nell’evitare i tranelli. A ciò aggiunge, in maniera alquanto sottaciuta, la rivendicazione del Primato di Dio su quello che è di Dio. E’ come se Gesù dicesse: Disconoscete la signoria di Cesare, però restituitegli il denaro. E restituite a Dio quello che è di Dio, cioè il popolo di cui voi vi siete impossessati.
 
2) LA FRASE CELEBRE ATTRIBUITA A GESU’
 
= La frase è un detto trasmesso al di fuori degli scritti canonici, in maniera particolare nel Vangelo di Tommaso. [Questo manoscritto contiene 114 loghia, ossia frasi attribuibili a Gesù, riportate in terza persona (Gesù disse), che richiamano alcuni passi dei vangeli canonici, inclinando però in maniera significativa verso una visione gnostica, nella quale si sostiene che l’anima raggiunge la salvezza attraverso l’illuminazione, forma superiore di conoscenza, propria di persone superdotate].
Datare questo vangelo apocrifo è difficile in quanto, risultando da una collezione di loghia senza struttura narrativa, i singoli detti potrebbero essere stati aggiunti gradualmente nel tempo.
= L’Apostolo Paolo applica la quintessenza di questa frase (come abbiamo detto, senza mai citarla) alla situazione dei cristiani nell’impero. Il suo pensiero è in un certo senso il commento più efficace della frase messa in bocca a Gesù, anche se collocata in contesti ben diversi l’uno dall’altro: quello di Gesù, poco prima della condanna; e quello di Paolo più di 50 anni d.C. Per Paolo occorre prestare obbedienza leale alle autorità dello stato, in quanto necessarie per la vita della polis e dei credenti. Dare a Cesare ciò che è di Cesare, per lui significa riconoscere che il cristiano non può essere un anarchico schierato contro lo stato e l’autorità politica. Gesù introduce nel mondo antico, il quale concepiva il potere politico in modo teocratico, una distinzione tra politica e vita cristiana, che in seguito fu interpretata come rivoluzionaria. I termini in cui è espresso il suo pensiero sono lontani dalle discussioni sull’essere ‘politici’. Ma, travasandole (le espressioni) nell’oggi suonerebbero così: la politica è necessaria ma va desacralizzata; quella del potere, è una funzione necessaria, ma umana, in quanto esercitata da esseri umani. Perciò di fronte a Cesare primeggia il diritto di Dio, il garante della grandezza e della libertà umana, da non conculcare mai.
= Gli ebrei erano abituati a concepire il futuro regno di Dio instaurato dal Messia come una teocrazia, cioè come un governo diretto di Dio su tutta la terra, tramite il suo popolo. Invece la parola di Cristo rivela un regno di Dio che è in questo mondo, ma non è di questo mondo; che cammina su una lunghezza d'onda diversa e che può perciò coesistere con qualsiasi regime, sia esso di tipo sacrale o laico.
Ecco il limite della politica ed ecco anche il suo fine. La politica non fonda i diritti umani, ma deve ad essi inchinarsi e servirli. Il compito dell’agire politico è quello di riconoscere la dignità umana e servirla. Perché i diritti umani hanno origine dalla dignità intrinseca allo stesso essere umano. La politica è indispensabile, ma insieme demitizzata.
= Il dialogo con i farisei e gli erodiani sviluppa da quel momento e per sempre, l’idea della laicità della politica, la sua bontà e necessità; ma fornisce anche gli strumenti per opporsi al potere politico ogni volta che questo chiederà l’obbedienza assoluta, mettendosi al posto di Dio. Infatti il potere di Cesare, per quanto grande, non può essere assoluto mai. Vi è una sola moneta che porta l'immagine di Dio: l'essere umano (Gn 1,26). Questi, portando impressa l'immagine di Dio, appartiene a Lui, e a Lui deve dedicarsi.
Ogni donna e ogni uomo sono le vere monete d'oro che portano incisa l'immagine e l'iscrizione di Dio. A Cesare le cose, a Dio la persona, con tutta la dedizione che gli è dovuta. Come dice Isaia, Is,1-6, sappiano dall’oriente e dall’occidente / che non c’è nulla fuori di me. / Io sono il Signore, non ce n’è altri.
= A ciascuno di noi Gesù ricorda: resta libero dalla tentazione di venderti o di lasciarti possedere, anche se a fare da Padrone fosse lo stesso “io chiuso nell’egoismo”. E ad ogni potere ricorda: Non appropriarti dell'essere umano. Non violarlo, non umiliarlo, non manipolarlo; è cosa di Dio, Suo mistero e prodigio.
 
3) UN PENSIERO di Elio Taretto. In termini semplici e caldi, quest’uomo davvero-di-Dio raccomanda ciò che non sapevo, ma volevo, dire io: camminiamo per le vie di Dio senza sosta! - La speranza sei tu se cammini. /  Ma se ti fermi la speranza muore con te.

 

La speranza e' un cammino

 

Oggi, domani e poi ancora

Noi non siamo nati per fermarci.

Questo te lo voglio dire,

perché qualcuno ti sta ingannando

e ti invita a startene tranquillo.

Ci sono intorno a te molti

che raccontano menzogne:

il vicino di casa, l'amico del bar, l'opinione pubblica,

il giornale, la TV e il partito.

Ehi, ehi! Apri gli occhi, amico,

e guarda in faccia la realtà.

Le menzogne ti stanno soffocando.

Sovente l'ordine non è la pace,

e il "consenso" non racchiude quasi mai la voce dei poveri,

di chi non può o non deve contare.

Sta in guardia, amico, apri gli occhi.

La speranza è un cammino difficile,

e Cristo, e ogni uomo cosciente

che prima o dopo di Lui ha lottato per la libertà lo hanno provato.

La speranza è un cammino continuo di fatti e di scelte concrete:

non si può costruire sugli slogan simili a bandiere vuote

che sbattono nel vento delle occasioni perdute.

La speranza ha sempre un nome concreto,

e nasce quando un uomo si incarica,

giorno dopo giorno,

del proprio fratello, per camminare insieme.

La speranza sei tu se cammini.

Ma se ti fermi la speranza muore con te.

E tu dovrai rendere conto, un giorno,

della speranza che hai fatto morire

nel cuore dei tuoi compagni di strada.

 

venerdì 13 ottobre 2017


DOMENICA XXVIII T.O.anno A
 
 
Is 25,6-10
Preparerà il Signore degli eserciti / per tutti i popoli, su questo monte, / un banchetto di grasse vivande, / un banchetto di vini eccellenti,/ di cibi succulenti, di vini raffinati. / Egli strapperà su questo monte / il velo che copriva la faccia di tutti i popoli / e la coltre distesa su tutte le nazioni. / Eliminerà la morte per sempre. / Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, / l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, / poiché il Signore ha parlato. / E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; / in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. / Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; / rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,/ poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».
Sal 22
Il Signore è il mio pastore: / non manco di nulla. / Su pascoli erbosi mi fa riposare, / ad acque tranquille mi conduce. / Rinfranca l’anima mia. / Mi guida per il giusto cammino / a motivo del suo nome. / Anche se vado per una valle oscura, / non temo alcun male, / perché tu sei con me. / Il tuo bastone e il tuo vincastro / mi danno sicurezza. / Davanti a me tu prepari una mensa / sotto gli occhi dei miei nemici. / Ungi di olio il mio capo; / il mio calice trabocca. / Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne / tutti i giorni della mia vita, / abiterò ancora nella casa del Signore / per lunghi giorni.
Fil 4,12
Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù. Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
 
Mt 22,1-14
In quel tempo, 1Gesù riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: 2«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. 5Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
 
C o m m e n t o
 
1) PREAMBOLO al vangelo
 
- In quest’anno liturgico che volge al termine, leggiamo ancora il testo di Matteo.
Si conclude la trilogia delle parabole attraverso le quali Gesù condanna esplicitamente i capi di Israele che hanno rifiutato il suo annuncio.
La parabola di questa domenica, detta della grande cena (a cui Gesù invita), eccede dai limiti del cristianesimo nascente, ancora in ricerca di una identità, ancora non definita. Eppure Matteo si propone, con questa terza parabola, di insegnare alla sua comunità cosa significhi essere chiamati e quale dovrà essere la risposta alla chiamata.
- Ma prima vogliamo fermarci un po’ sull’origine lontana della parabola, che si riallaccia a un soggetto di narrazione ben noto ai tempi di Gesù: la storia del ricco gabelliere Bar Maʿjan e del povero scriba, raccontata in aramaico nel Talmud palestinese, a cui Gesù si sarebbe riferito anche nella Parabola di Lazzaro e del ricco epulone; di essa Gesù ha usato qui solo la conclusione.
Il racconto narra che Bar Maʿjan ebbe uno splendido funerale quando morì: nella città tutti si astennero dal lavoro per accompagnarlo nel rito funebre; contemporaneamente morì un pio scriba, e nessuno si accorse della sua inumazione. Alcuni si chiesero: come può Dio essere così ingiusto da permettere una cosa simile? La risposta del racconto è che Bar Maʿjan, nonostante non avesse condotto una vita buona moralmente, aveva compiuto una buona azione ed in quell'istante era stato sorpreso dalla morte. Poiché l'ora della morte è decisiva, e la buona azione non poteva più venir annullata da azioni cattive, essa doveva essere ricompensata da Dio; e ciò avvenne con il grandioso corteo funebre.
Ma qual era la buona azione compiuta da Bar Maʿjan? Egli aveva imbandito un banchetto per i consiglieri, ed essi non vennero. Allora egli ordinò: i poveri debbono venire a mangiare, affinché le vivande preparate non vadano a male. Il motivo del banchetto ai poveri non è altruistico e nobile, e ciò è simile a quanto si racconta nella parabola del giudice e della vedova: cosa che non impedisce a Matteo di utilizzare il racconto aramaico.
- A costruire lo sfondo della parabola di questa domenica è stata soprattutto una parabola rabbinica raccontata da Johnam ben Zakkai (verso l’80 d.C.), che si dipana lungo la falsariga del racconto delle 10 vergini.
Questi ed altri racconti correvano di bocca in bocca in forme varie; facevano parte della loro cultura. Tanto che le varianti, i ritocchi, le varie versioni, erano accettate ed assimilate alla propria mentalità.
= Ma è bene che noi, cristiani di poca fede (come mi pare onesto riconoscere) ci affidiamo ad una lettura informata e possibilmente ‘raccolta’, guardando, più che alla provenienza del materiale usato, 1) a ciò che è scritto nell’Antico e nel Nuovo Testamento, 2) all’utilizzo della parabola in forma di allegoria; cioè, 3) dopo aver capito quanto l'autore ha espresso dovremo ravvisare la storia della salvezza raccontata a grandi linee 4) e cosa significhi oggi nel momento attuale, carico di falsi fervori e di nuovi idoli, per chi, finalmente nutre nel suo intimo il desiderio di ascoltare la voce invitante di Dio.
=Matteo si permette di aggiungere alla parabola un secondo racconto relativo all’abito nuziale, che vuole essere una riflessione sulla disposizione d’animo del vocato. Questo ultimo atto della parabola interpella sulla risposta alla chiamata….
 
2) ANALISI TESTUALE della pericope
 2. Anzitutto bisogna tener presente che l’immagine del banchetto nuziale è presente nell’AT, attraverso Isaia e attraverso numerosi salmi.
Matteo introduce la parabola presentando Gesù che si rivolge nuovamente ai sommi sacerdoti ed ai farisei.
La parabola ha lo stesso tema delle parabole raccontate precedentemente: il regno dei cieli.
Anche qui protagonista è un padre, questa volta un uomo re, che celebra la festa di nozze per suo figlio. L’evangelista non manca di aggiungere elementi che sottolineano cosa significhi per i cristiani imboccare la via per la vera vita sulle orme di Gesù.
Gli avversari di Gesù restano sorpresi del paragone tra il Regno e una realtà umana, fatta di convivialità e di festa. Ma nella cultura giudaica non erano pochi coloro che riconoscevano le allusioni all’alleanza tra Dio-Re di Israele, e il popolo visto nell’ottica dei profeti.
3. Il re invia i servi a vocare i vocati, bel gioco di parole centrato sul verbo kaléo, che significa, in questo caso, invitare. Il vero Vocante è Dio, ho kalón. Il verbo ricorre 6 volte, e segna, con scansione insistita, i tempi del prima, del poi, dell’eterno presente.
Con il termine servi vengono indicati tutti coloro che dipendono dal re, ministri e funzionari.
- Adempiuto l’ordine del re, essi non riescono ad ottenere altra risposta se non il rifiuto.
4. Ciò non scoraggia il re, che invia nuovi servi, forse con la speranza che possano essere più convincenti. L’insistenza del Re mostra anche un altro aspetto, la gratuità dell’invito, il quale non è legato ad alcun merito dell’invitato. La descrizione della sovrabbondanza dei cibi preparati rimanda al libro dei Proverbi (9,2-6), nel quale la Sapienza invita al banchetto con queste parole: Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: “Chi è inesperto venga qui!”. A chi è privo di senno lei (la sapienza) dice: Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza (la quale rende consapevoli del mistero che avvolge la chiamata).
5. L’atteggiamento degli invitati, applicato alla sfera religiosa, richiama quello degli osservanti (della Toràh), i quali erano così attaccati al benessere, da rifiutare tutto ciò che potesse disturbarli dagli impegni atti a garantire i propri interessi.
6. La risposta degli invitati è ancora un no, per giunta accompagnato da violenza, come per i vignaioli di cui si è parlato la domenica scorsa.
7.  A differenza della prima parabola, il Re non invia il proprio figlio, ma si accende di ira e risponde con violenza alla violenza, giungendo all’eliminazione degli assassini e alla distruzione della loro città. Tale risposta carica di furore da parte del re, che per noi moderni è inconcepibile se applicata a Dio, era un’immagine familiare nell’AT, usata per descrivere l’intervento di Dio contro i suoi nemici (cfr. Is 5,24), in quanto contrari alla Bontà divina.
- Nel particolare momento in cui si racconta la parabola, Gerusalemme era stata distrutta dai romani, nel 70 d.C.; e tale evento sembrava autorizzare l’interpretazione della catastrofe giudaica come punizione divina. E i puniti, non accettando il Messia e il suo messaggio salvifico, potevano sembrare (agli occhi dei seguaci di Gesù) insensibili di fronte all’ira divina.
8-9. L’atteggiamento del re, infine, è del tutto inaspettato: egli dà un nuovo ordine ai suoi servi: andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.
L’ordine del re è straordinario. Dio quando è rifiutato, anziché abbassare le attese, le alza, va più lontano, gioca al rilancio: chiama tutti! Alla festa possono partecipare buoni e cattivi.
Che cosa sono i crocicchi delle strade? Sono i punti in cui strade strette e vicoli cittadini si intersecano, e quindi in essi, in maniera quasi naturale, vengono ad accamparsi sbandati di ogni tipo, talvolta in attesa che qualcuno, passando, rivolga loro la parola o dia un aiuto. Il Vocante invita senza controllarli, senza badare alla loro attendibilità.
E’ da notare l’uso del termine greco gámus, che indica, non tanto l’unione matrimoniale quanto la festa che l’accompagna, il cui elemento principale è il banchetto nuziale.
10. Il verbo tradotto con radunare è il greco sunh-gagon, da cui il termine sinagoga. L’intenzione di Matteo è evidente: il nuovo popolo (la chiesa) è la nuova sinagoga di Dio, dove vengono annullate le differenze di classe e aboliti i meriti.
11-12.  Nell’appellativo amico si coglie la benevolenza verso colui che non riconosce la Sua (di Gesù) generosità e gratuità, o quanto meno la volontà di suscitare sentimenti di amore, proprio quando l’altro ne manifesta di opposti (vedi quest’appellativo rivolto a Giuda quando stava per tradirlo). D’altra parte, nel vangelo di Matteo, il giudizio su ciascun essere umano è sempre in base alle sue opere: da qui la volontà di trattare anche il nemico come amico.
- L’abito nuziale dimostra l’impegno del credente a compiere opere a favore degli altri (la giustizia), e ricorda il discorso della montagna: “Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).
Il senso è che, se tutti sono invitati alle nozze, non tutti però vi partecipano con convinzione. Non basta entrare nella sala della festa; occorre cambiare, convertirsi, essere puri di cuore. Questo impegno non è in contraddizione con l’aria gioiosa che caratterizza il banchetto di nozze, bensì è la condizione perché la festa sia una realtà percepibile e partecipata da tutti.
13. La reazione sdegnata del re e i suoi ordini severi fanno comprendere che l’abito di nozze è un termine figurato, atto a suscitare un comportamento importante, senza il quale non è possibile l’ammissione al banchetto. Nessuna scusante per non indossare la veste nuziale: all’entrata nella sala, ciascun invitato riceveva in dono uno scialle da mettere sulle spalle come segno di festa.
Sorprende che qui compaia il termine diakónois  in riferimento ai servi, mentre Matteo finora aveva utilizzato sempre dúlois, funzionario.
- C’è chi, tra gli esegeti, avanza l’ipotesi che il banchetto rappresenti il ruolo specifico della comunità di Gesù rispetto alle altre (comunità). Infatti invitare ad esso è compito specifico affidato alla comunità di Gesù. Questa dovrà riaffermare le condizioni indispensabili per il Regno e la responsabilità di evidenziare in che modo ci può essere un fallimento. Si tratta della fedeltà al messaggio del Regno e della collaborazione nella sua edificazione, che debbono distinguere la vita del credente. Il monito è molto forte: non giova a nulla l’appartenenza formale alla comunità; bisogna liberarsi da ogni falsa sicurezza.
14. La frase finale inizia con un’immagine positiva: molti sono chiamati, che mostra la sollecitudine, da parte di Dio, nel rivolgere a ciascuno la sua proposta di vita. (L’aggettivo molti è un semitismo per dire tutti, oppure per esprimere un comparativo; come  a dire: sono più i chiamati che gli eletti; oppure: sono pochi quelli che rispondono)
La conclusione della parabola è tanto realistica quanto amara: pur essendo l’invito esteso a molti, sono pochi gli eletti
Finite queste parabole, le autorità religiose non solo non si ravvedranno, ma risponderanno con contrattacchi per screditare e deridere Gesù e il suo messaggio.
 
3) APPROFONDIMENTI
 
a) L’INVITO PRESSANTE
Matteo inserisce nella sua parabola alcuni tratti che precisano il suo significato. Il concetto di chiamata quale appello di Dio alla Salvezza risale al profeta Isaia nel quale la chiamata di Dio, ignorata dal popolo ebraico, viene rivolta a tutte le nazioni.
- La chiamata è la convocazione di tutti i popoli, dopo che gli israeliti hanno rifiutato l’invito. Si fa così strada il piano fondamentale di tutto il Vangelo di Matteo, in cui il messaggio di salvezza, dapprima rivolto solo al popolo ebraico, assume via via sempre più, nelle parabole e nei discorsi di Gesù, un respiro universale, come del resto era già stato anticipato nei Salmi e nei profeti.
Questa parabola quindi ha un’importanza sostanziale per comprendere la missione di Gesù: Dio manda Cristo, e con Cristo il suo invito alla salvezza di tutti i popoli (come a dire: di tutto il mondo).
- Per Luca la parabola si chiude con queste scarne espressioni: «nessuno di quegli uomini che erano stati invitati gusterà la mia cena». Come dire che nessuno di loro potrà far parte del banchetto messianico e potrà gustare la salvezza eterna.
In Matteo, invece, la parabola continua. Se leggiamo con superficialità i versetti dal settimo ai seguenti, troviamo messa in evidenza l’insistenza unita allo sdegno del re (Dio), che sconfina in ira, in rivalsa, in contropartita: tutto descritto in toni umani, e per giunta con aspetti di paradossalità: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città… E questo in vista di castigare chi ha rifiutato l’invito, e di spalancare le porte per fare entrare i pezzenti!
Ma, proprio l’aspetto di ferocia vendicativa rappresenta un’immagine vivida, con la quale l’autore vuol significare quanto sia traboccante la voglia divina di chiamare a sé tutti, popoli e persone. E’ vero, il modo di esprimere l’amore è esagerato. Lo stesso sottolineare che i servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, ha dell’incomprensibile: fa pensare ad un arruolamento tanto forzoso da oltrepassare i confini della cattiveria, e per giunta, assimilata alla bontà… Invece Matteo vuole inculcare lo spirito di accoglienza, la predisposizione (da coltivare in seno alla comunità) a divenire da vocati a vocanti come il Vocante per eccellenza.
 
b) LA VESTE NUZIALE
- Anche la metafora della veste nuziale è carica di un significato molto profondo e tale da assumere un carattere squisitamente spirituale.
Essere senza la veste nuziale nel mondo giudaico significava essere nudo. Nella mentalità semitica più in generale, ma soprattutto nel popolo ebraico in particolare, la nudità era vista come un segno di miseria interiore, di mancanza di dignità. (Allo stesso modo la leggenda parla di Adamo ed Eva che con il peccato perdono la loro dignità di creature e provano vergogna, tanto che in presenza di Dio vanno a nascondersi. I prigionieri, i deportati del popolo ebraico verranno spesso descritti come persone nude, cioè prive di dignità).
- In alcuni passi della Bibbia si dice che Dio riveste i suoi di giustizia come di una veste nuova. Quindi una nuova veste equivale quasi ad un nuovo modo di essere e di porsi nei confronti di Dio, e potrebbe essere, come nel caso di questa parabola, la manifestazione di una conversione realmente avvenuta. Viceversa, ciò che esclude dal regno di Dio è l’ostinazione a mantenere la propria natura, il proprio carattere, il proprio modo di pensare, addirittura la propria religiosità, in contrapposizione all’invito di Dio a cambiare la propria vita, a non conformarsi allo spirito di questo mondo.
In poche parole l’abito nuziale, del quale fu trovato sprovvisto l’invitato che venne cacciato fuori nelle tenebre, dove c’è il pianto e lo stridore dei denti, altro non è se non il segno della mancanza di una effettiva, reale conversione, senza la quale non sarà possibile partecipare al banchetto nuziale inaugurato da Cristo.
- Ci viene in soccorso anche il libro dell’Apocalisse in cui si parla delle nozze dell’agnello e si legge che la veste di lino sono le opere dei santi.
Conversione significa sostituire i valori esistenti con quelli proposti da Gesù.
Il regno di Dio è un’alternativa per la società, dove al posto dell’accumulare ci sia il condividere, dove al posto del comandare ci sia il servire. E questo si deve vedere attraverso azioni concrete che lo manifestino.
- Alla fine della parabola quando si legge Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti, dobbiamo tener presente che  si tratta di un’immagine tipica, presa dal linguaggio rabbinico, per indicare il fallimento della propria esistenza. I capi religiosi, i sommi sacerdoti, gli anziani, i farisei, quelli che si ritenevano i più vicini a Dio, i privilegiati del regno, proprio loro sono desinati ad essere esclusi.
= Voglio finire con l’affermazione di un importante filosofo del ‘900, M. Heidegger: La vera povertà del mondo, è quando non si sente più la mancanza di Dio come mancanza.
Quanti giustificano la loro negligenza con accuse indirette a Dio, che ci manda le malattie, la morte, le tendenze negative e quant’altro!
Vorrei che tanti altri, tutti, ripetessero con me:
O Dio, se Tu non mi manchi, ho tutto.