venerdì 27 ottobre 2017


DOMENICA XXX T.O. anno A

 

Matteo 22:34-40

 

34 Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35 e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36 «Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?». 37 Gli rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38 Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. 39 E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

C o m m e n t o

 

1) NOTE ANALITICHE
Matteo, seguendo il filo del resoconto di Marco, racconta l’ultima settimana di vita di Gesù, il quale, dopo il suo ingresso nella città santa, affronta due serie di incidenti: scontri con le autorità giudaiche e controversie con i capi dei movimenti giudaici.
Nella controversia sul comandamento più grande i due evangelisti, Matteo e Marco, procedono di pari passo, pur avendo alcune significative differenze nei dettagli. Anche Luca riporta questa controversia, ma la situa nella sezione del viaggio verso Gerusalemme, abbinandola alla parabola del buon Samaritano.
Nella pericope di questa domenica ancora una volta c’è qualcuno, uno scriba, che si fa avanti come portavoce della comunità e interroga Gesù per metterlo alla prova.
Mentre in Marco lo scriba chiede qual è il primo comandamento di tutti, Matteo trasforma così la domanda: qual è il più grande comandamento della legge? In questa domanda si riflette la preoccupazione, diffusa anche tra i rabbini, di trovare una formula che fosse l’origine, il fondamento e la sintesi di tutta la Toràh.
Per i farisei (che erano riusciti ad affastellare la Legge con 365 proibizioni (quanti i giorni dell’anno) e 248 precetti (quante le componenti ossee del corpo umano) per un totale di 613 regole da osservare!) il comandamento più importante, secondo le tesi prevalenti delle scuole rabbiniche, era il riposo del sabato; una tesi che aveva le sue radici nel libro della Genesi, dove si narra che Dio, terminata la Creazione nel settimo giorno, cessò di creare. Considerato il più importante dei comandamenti, la sua osservanza equivaleva all’adempimento di tutta la Legge. Al contrario, la disobbedienza del sabato equivaleva alla trasgressione di tutti i comandamenti e veniva punita con la morte (Es 31,14).
La risposta di Gesù è sconvolgente. Cita l’affermazione tratta dal credo di Israele: Shemà Israel, Ascolta Israele, che gli ebrei recitavano due volte al giorno; continua con le parole del Deuteronomio: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; quindi aggiunge, con le parole del Levitico, un secondo comandamento simile, homoiôs al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Con queste parole, assenti in Marco, Gesù vuol far capire che i due comandamenti in realtà ne formano uno solo. Il secondo è ricavato anch’esso dal Levitico, dove appare all’interno di una raccolta di comandamenti etici, disposizioni rituali e precetti casistici. Il concetto di prossimo era però limitato ai propri connazionali e ai forestieri residenti, e quindi era negato a tutti coloro che non facevano parte del proprio gruppo.
Mentre in Marco Gesù conclude affermando che non vi è comandamento più importante di questi due, secondo Matteo Gesù commenta: Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti. Il verbo dipendere, kremannymi, indica l’essere originato e il convergere. Il binomio legge e profeti usato da Matteo in altre due occasioni, ambedue nel discorso della montagna, significa la legge interpretata alla luce della predicazione profetica.
Una nota: Matteo è l’unico a non aggiungere l’espressione “con tutta la tua forza’. Ciò potrebbe avere la spiegazione nel fatto che questa legge, essendo legge d’amore, non può essere ‘forzata.
Proseguendo su questa linea Gesù metterà in primo piano l’amore del nemico, cioè di colui che si situa all’esterno del popolo o della comunità. L’amore del prossimo ha quindi senso solo se è capace di abbracciare anche i nemici; altrimenti rischia di diventare una nuova forma di egoismo, in cui l’altro viene amato in funzione di quanto può dare in cambio. L’amore non consiste in un generico volersi bene o nell’assistenza in caso di bisogno, ma nel saper vivere in un rapporto costante con gli altri, dando vita a quella realtà profonda e complessa che genera la sana convivenza.
Matteo chiude qui il dibattito, omettendo di parlare della reazione entusiasta suscitata nel suo interlocutore.
E’ chiaro che l’impostazione del concetto di legge data da Gesù nel racconto di Matteo, non può non avere, come conseguenza, una certa relativizzazione della legge stessa. In contrasto con il giudaismo dell’epoca, sarà il cristianesimo delle origini a dare pieno valore al principio che nessun precetto può essere imposto, in quanto senza amore perde la sua validità (sviluppi, questi, da attribuire alla elaborazione dei primi cristiani.

 

2) APPROFONDIMENTI PERSONALI

 

a) Premessa

= Fa pensare questo ritratto di Gesù che inaugura la Nuova Legge dell’Amore. E’ perciò legittimo, se non doveroso, porsi delle domande. Ne esprimo qualcuna.

Come poteva il vangelo (sia di Matteo sia degli altri evangelisti) far parlare Gesù ed inserirlo in un contesto narrativo consequenziale nelle sue parti e soprattutto nel contenuto, a cui poteva giungere soltanto un lungo percorso, quale quello compiuto dalle prime generazioni cristiane?
E’ certo che la stessa ricostruzione dei fatti e relativi discorsi ci giunge da evangelisti non del tutto concordi; e non è da trascurare la ricca produzione di apocrifi che aggiungono od omettono tanti particolari ed hanno visioni delle cose del tutto diverse l’una dall’altra.
Questi pochi cenni a questioni aperte mi permette di fare un approfondimento fuori dai soliti schemi.
= Mi avvicinerò all’argomento dell’amore del prossimo in maniera personalissima, irrituale e a tratti - spero che non la pensiate così! - alquanto irriverente.
Vorrei spiegare il tutto con parole semplici. Ci provo, ma temo di non farcela a tenermi lontana dalla bonomia di chi, per commentare il vangelo, lo racconta usando parole sue per ripetere le stesse cose che sono scritte nel vangelo.
= Per semplificare entro nell’ambito del simbolico, scomodando la geometria piana, cioè quella parte in cui le figure sono disposte su una superficie piana.
= Descriviamo cos’è un triangolo
Ci sono la base e i due lati, convergenti verso un…….punto.
La realtà del triangolo è fatta di punti, che sono tutti indispensabili, non sovrapponibili, collocati ciascuno in un proprio singolo spazio, e perciò diversi l’uno dall’altro. Si nota subito che i punti realizzano tutti assieme la stessa ‘UNITA’. Se uno mancasse, o volesse essere diverso stando fuori dall’unità, scomparirebbe al nostro sguardo; ciò che ciascuno di essi è dipende dall’essere in quel triangolo.
Ma c’è amore del prossimo in una unità costrittiva di tipo geometrico?
La risposta potrebbe essere questa: abbiamo parlato di una realtà simbolica dove si vuole significare la necessità dello stare insieme, finalizzata ad esprimere il mistero. preciseremo di seguito.

 

b) Dal simbolo alla realtà

= Immagino di essere io (la stessa cosa vale per voi) un punto, collocato tra tanti altri (anzi, in geometria, infiniti altri), alcuni vicini tra loro, cioè la famiglia, gli ambienti in cui sono stata; altri lontani lontani l’uno dall’altro.
= Guardando la figura del triangolo, non c’è chi non possa capire che tutti i punti sono protesi verso l’apice. Come mi intriga il punto in alto che non riesco nemmeno a capire se si sprigiona dal lato di destra o dal lato di sinistra! Proprio qui è il bello. È a centro, in alto, quasi che voglia stare con tutti i punti del triangolo o quasi voglia lasciarli per sperdersi solo… chissà, nell’infinito, dove, forse, tutti i punti vorrebbero sperdersi.
Il discorso, trasferito agli umani, suona così: tutti, chi in un modo chi in un altro, tendiamo ad una fantasmatica felicità, fatta di realizzazione e di pienezza (ma questa, essendo nel TEMPO, non è mai piena e duratura; e perciò è immaginata in un altro mondo più perfetto). La geometria ritrae simbolicamente un mondo completo in ogni figura;e non si può negare che nella realtà l’essere umano non potrebbe vivere la sua finitezza come imperfezione, pena una grande sofferenza e tentativi di  scavalcarla, o meglio, di oltrepassarla 
= E se il punto-apice fosse simbolo di Dio? E se l’aldilà fosse Dio? se fosse il Dio intimo a tutti e che tutti trasporta a Sé?
Qui è logico pensare al concetto di libertà. Senza la libertà non si è creature di Dio, non si è esseri umani, non si può tendere alla perfezione. L’apice è per persone libere che scelgono, aspirano, corrono verso un fine. Il dubbio è generato dalla confusione che abbiamo sull’idea di libertà. La libertà non significa che ogni punto potrebbe andarsene a spasso per conto suo. La libertà è inerente alla scelta soggettiva, non al fine verso cui tendere. Certamente io sono libera di fare di me ciò che voglio fino a distruggermi, ma, se voglio qualcosa, debbo sottostare a quel qualcosa. Guai se il fine non fosse l’apice dei nostri desideri, delle nostre scelte: senza un punto saldo di riferimento, si sfalda il senso di responsabilità necessario alla realizzazione di un fine. Mi viene da dire che la geometria esprime il regno della necessità finalizzata: un po’ come noi? 
 
c) Il prossimo oltre il senso comune
- Per tutti il prossimo si rende palpabile nello lo stare assieme di persone che tendono allo stesso fine.
- Una domanda intrigante: è mio prossimo il gatto che ho come amico o almeno come qualcuno con cui confortarmi (o meglio, credendo di fare bene a lui per confortarmi io)??
- Mi pare che non si possa definire prossimo lo stare assieme per pura costrizione e/o per confortarsi reciprocamente.
- Il prossimo evangelico non si può applicare ad ogni ACCOMUNAMENTO, tanto meno se non ci si ispira ad un PRINCIPIO, un IDEALE, o semplicemente un OBIETTIVO.

 

d) Il prossimo attraverso la teologia (quali rischi nei discorsi generici)

Amare significa continuare, prolungare nel tempo, l’azione divina.
Il primo rischio è quello dissolvere l'amore di Dio in quello del prossimo o al contrario di ridurre l'amore verso il prossimo in quello verso Dio.
- Infatti, quando si afferma che l'amore da Dio è la motivazione dell'amore verso il prossimo, si rischia di vedere il perché ultimo dell'amore del prossimo, soltanto nell'amore verso Dio. ciò è come dissolvere Dio in un incerto supererogatorio orizzonte di senso che sostiene a livello motivazionale l'amore del prossimo; l'amore di Dio si colloca come causa unica dell'amore del prossimo, finendo per screditare l'esperienza mistica in senso stretto e la contemplazione.
- Al contrario si può cadere nella tentazione di considerare il prossimo come un incidente strumentale per amare Dio. Se si ama Dio nel prossimo attraverso il prossimo, si rischia di non amare la persona per quello che è, ma meramente come mezzo funzionale all'amore verso Dio. Compio un atto caritatevole e così mi guadagno l’amore di Dio, cioè il Paradiso”.
L'amore del prossimo deve invece essere autentico, deve raggiungere il Tu nella concretezza storica della sua singolarità e unicità.
- Anche il trovare senso soltanto Dio nell’amare il prossimo, si sminuisce l’atto dell’amore sia del donante sia del ricevente: io, invece, amo perché mi sono formato nell’amore, sia perché l’altro lo merita, ha in sé valore, sia perché ho compassione …
- Invece bisogna coltivare l'humilitas [la parola viene da humus, terra; essere umili comporta essere aderenti alla terra (in geometria corrisponde alla base)], da intendere come coscienza del proprio fondamento in Dio; e ciò senza estraniarmi da me e dal mondo. Se nell'amore del prossimo si pone un a-priori (l'amore verso Dio prima che verso il prossimo), si rischia di non amare più veramente e concretamente il prossimo; e, se si perde l'intima connessione originaria tra le due dimensioni dell'amore, si finisce per restare impigliati in un dualismo che riduce l'amore verso Dio a misticismo disincarnato e l'amore verso il prossimo a filantropismo.
Amore verso Dio e amore verso il prossimo debbono essere vissuti nella loro piena autonomia e debbono essere posti in reciproca interazione, rimanendo però separati e a-vversi (da ad-versus: dove l’uno va verso l’altro e viceversa).

 

3) PREGARE L’AMORE

 

a) Da M.Teresa di Calcutta:

Signore, insegnami a non parlare come un bronzo risonante o un cembalo squillante, ma con amore. Rendimi capace di comprendere e dammi la fede che muove le montagne, ma con l'amore. Insegnami quell'amore che è sempre paziente e sempre gentile; mai geloso, presuntuoso, egoista o permaloso; l'amore che prova gioia nella verità, sempre pronto a perdonare, a credere, a sperare e a sopportare. Infine, quando tutte le cose finite si dissolveranno e tutto sarà chiaro, che io possa essere stato il debole ma costante riflesso del tuo amore perfetto.

 

b) Guardando alla realtà di oggi, pregando ed agendo, per quanto possibile, per essa.

 

O Dio, Ti sento dentro di me, ed eccomi:

ti restituisco i tuoi doni e le mie debolezze.

Strappami ciò che resta del mio io e che non so domare:

lo voglio immergere nell’abisso del Tuo amore

ed in esso farlo sommergere.

Voglio mettere al primo posto tutti, proprio tutti,

soprattutto chi mi ha dimenticato od offeso.

Ma prima ancora ti prego per chi è privo di libertà,

per chi non sa amare né soffrire né redimersi.

Stretta a Te, mia Roccia,

vedo tutto il bene e il bello del mondo,

vedo i feriti nel cuore, divenuti induriti

privi di amore, nocivi a sé e agli altri.

o Dio, Tu non mi comandi di amarli:

sei dentro di loro come in me nella comune miseria.

O Dio Silente, per loro ti prego a bocca chiusa

e Ti restituisco la follia d’amare che mi hai contagiato,

o Amore, o Tutto, o Gioia, o Festa  perenne

…..

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