SESTA DOMENICA di PASQUA
1) il vangelo
Gv
14,23-29
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi
discepoli]:
23 Se uno mi ama, osserverà la mia parola e
il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
24 Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e
la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25 Vi ho detto queste cose mentre sono ancora
presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio
nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
26 Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non
come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non
abbia timore.
27 Avete udito che vi ho detto: ‘Vado e tornerò
da voi’.
28 Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado
al Padre, perché il Padre è più grande di me.
29 Ve l’ho detto ora, prima che avvenga,
perché, quando avverrà, voi crediate.
1) PREMESSA
PERSONALE al commento
E’ proprio il caso di premettere che
in questi tempi difficili sotto diversi aspetti e nei più disparati campi, è
difficile per me commentare questa pericope del IV vangelo, di cui non è autore
diretto Giovanni (ma i rimaneggiamenti del testo presupponevano che lui fosse
stato il testimone principale di quanto viene narrato).
- La chiesa cattolica ha definito lo
Spirito santo Terza Persona della Trinità. Ma i testi biblici del cristianesimo
hanno subito non pochi travagli dal punto di vista esegetico-critico, morale e spirituale.
- Talvolta, nello stendere i miei
commenti, immagino quanto debbano essere distratti i miei lettori
dall’approfondire la Parola dal momento che sono abituati all’ascolto ingenuo, letterali
stico, della Parola. Ne consegue che la fede dei più ondeggi tra luoghi comuni,
devozionalismo; atteggiamento ipercritico disincarnato, spiritualistico
eccetera. E ciò nel disorientamento delle coscienze maggiormente vigili.
- Come parlare allora di Spirito
santo, di Paraclito, di Terza Persona della Trinità? e poi a che pro?
Ecco perché mi limiterò a) a fare un commento breve soltanto circa
i primi tre versetti della pericope, e b)
mi affiderò a Teresa d’Avila, dottore della chiesa, perché sia lei a suggerirci
come pregare il buon Dio per poter entrare nel mistero, non secondo le
definizioni ufficiali, ma nel confronto con la realtà concreta, politica,
economica, vissuta e soprattutto succube della dominante cultura
materialistica, incapace di ritrovare l’orientamento fondato sui perenni valori
umani.
2) I PRIMI TRE
VERSETTI
23 Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
Siamo di fronte alla parte finale del discorso di
addio, che Gesù avrebbe rivolto ai suoi discepoli durante l’ultima cena.
In realtà il discorso non è più diretto ai discepoli
presenti nel cenacolo, ma ai seguaci di tutti i tempi; Gesù infatti non usa più
il voi, ma parla in modo impersonale:
Se uno mi ama. Cioè chiunque,
se vuole, può entrare in comunione con Lui.
Inoltre si afferma che c'è relazione d'amore tra
Figlio e Padre. Quest’ultimo entra in dialogo d'amore anche con il discepolo
che diviene una cosa sola con il Figlio.
La venuta del Padre e del Figlio è definita dimora, termine denso di significati. Già il
re Salomone, durante la cerimonia di consacrazione del tempio, si chiedeva come
fosse possibile che Dio, grande e infinito, potesse ridursi a dimorare in una
casa fatta da mani umane (1 Re 8,27).
24 Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e
la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Sempre nel vangelo secondo Giovanni, al v. 21, Giuda
Taddeo aveva chiesto a Gesù: come è
accaduto che tu devi manifestarti a noi e non al mondo? Gesù avrebbe risposto
soltanto allora a questa domanda: il
termine mondo sarebbe sinonimo di coloro che, rifiutando la Parola
dell'Inviato, rifiutano quella dello stesso Padre, e dunque si escludono da
ogni comunicazione ulteriore. La comunità dei discepoli e il mondo si
distinguono soltanto per la presenza o l'assenza dell'amore, cioè della
comunione di vita con il Padre e il Figlio.
25 Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi.
Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi
insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Il nome Paraclito in
origine era usato nel linguaggio giuridico e significava letteralmente chiamato-vicino; l'equivalente latino è ad-vocatus,
cioè avvocato, inteso come difensore o soccorritore, per estensione consolatore.
Il contesto in cui si usa questo termine nei testi profani è quello del processo,
e indica colui che sta a lato dell'accusato per difenderlo.
In ebraico
la parola Spirito è ruah, nome di genere femminile che significa soffio,
aria, vento, respiro...; esprime la Potenza divina, della quale sono compenetrati
i profeti,
ma che è disponibile ad agire in tutti.
Il
concetto di tale Potenza non ha avuto tuttavia uno sviluppo particolare
nell'Ebraismo, come invece lo ha avuto il Cristianesimo.
3) TERESA D’AVILA e la penetrazione nel mistero tramite la preghiera.
Lasciamo a lei la parola, accompagnata da brevi commenti
Pregare è un bisogno intimo dell’uomo,
perché Dio ci ha creato per farci entrare in comunione con Lui.
La preghiera è uno strumento di
amicizia, forse il più alto, il più misterioso, il più sublime.
L’orazione non è un soliloquio, ma un essere soli con Lui solo.
Ogni preghiera è ispirata da Dio e ci dà la certezza di essere amati da Lui.
Non desidero altro che staccarmi da tutto ciò che non è Lui, che mi distrae
da Lui. Si tratta di un’attitudine interiore.
Il raccoglimento nella preghiera è un trattare con Lui come con un padre
o un fratello, come con uno sposo; una volta in un modo e una volta in un altro.
Sono caduta tante volte: fu soltanto
per non essermi appoggiata alla forte colonna dell’orazione.
- Teresa usa spesso il verbo guardare:
invita a guardare Gesù e a lasciarsi guardare da Lui. Lo sguardo reciproco
esprime proprio l’intimità. Addirittura lei parla di innamoramento.
Chi comincia (l’orazione) deve far
conto di tramutare in giardino di delizie per il Signore un terreno molto ingrato,
nel quale non germogliano che erbe cattive.
Sradicare le erbe cattive e piantarne
di buone è lavoro di Dio che supponiamo già fatto fin da quando l’anima si
determina per l’orazione e comincia a praticarla. Ora a noi, come a buoni ai giardinieri,
incombe l’obbligo di procurare, con l’aiuto di Dio, che quelle piante crescano:
perciò innaffiarle affinché non inaridiscano, e cercare che producano fiori di
deliziosa fragranza per ricreare il Signore. Allora Egli verrà spesso a
riconfortarsi e trovare le sue delizie fra quei fiori di virtù (…)
4) La poesiola personale
ribelle al destino di giorni
incolori intrecciati a vuoti
rituali
nelle feste trovavo rifugio
sollievo pace e gioia
la festa è sosta agli affanni
novità contro apatie
comunione di affetti incanto
da ogni affanno distanza
vorrei chiamarla
dono dello Spirito
ma ormai il mistero
bussa alla porta del cuore
sussurrando pienezza d’amore
da-dare da-dare
da-dare