venerdì 25 novembre 2016

I DOMENICA DI AVVENTO anno A


 

I DOMENICA DI AVVENTO anno A

 

Mt24,37-44
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «37Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. 38Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, 39e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. 40Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. 41Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. in quale giorno il Signore vostro verrà. 43Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. 44Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
 
Commento
 
Preambolo
 
Al contrario dell’anno civile che volge al suo termine, inizia oggi il primo anno del ciclo liturgico triennale, detto anno A. In questo ci accompagna il Vangelo di Matteo.
La parola che si staglia su tutte, nella pericope di questa prima domenica di Avvento, è: Vegliate perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà.
Sarebbe stato per noi motivo di terribile angoscia conoscere in anticipo l'ora esatta della fine ed assistere al suo lento e inesorabile approssimarsi. È quello che più spaventa di certe malattie. Ma l'incertezza dovrebbe spingerci a vivere da vigilanti.
Eraclito ha espresso questa fondamentale esperienza con una frase rimasta celebre: panta rei, cioè tutto scorre. Nel cristianesimo, come nelle altre colonne portanti della storia quali le grandi religioni, c’è un grande Indicatore puntato all’interno del cuore umano: in esso il tempo può fermare la sua corsa e far maturare gradualmente la capacità di filtrare ciò che è autentico. Lo può o non lo può. Lo può nella fede, cioè nel rapporto fiducioso in Dio, non lo può nella solitudine del ripiegamento dell’io su se stesso. L’imperativo del Vegliate di Gesù insegna ad uscire da questa solitudine esistenziale (dietro la quale si nascondono tante ideologie).
 
Il vangelo di Matteo
Dal momento che Matteo quest’anno fa da mentore nell’approccio alla parola di Dio, facciamone una breve presentazione.
Anzitutto egli, come gli altri evangelisti, ha alle spalle qualcosa di scritto, fissato su una pergamena o su un papiro. Si tratta dei protovangeli, i quali, a loro volta, derivano da una predicazione orale, individuata come il kerigma. Ma da tanti elementi esegetici  risulta che Marco ha scritto prima di lui, e Matteo lo segue più da vicino, naturalmente scrivendo il suo vangelo con altra sensibilità.
Matteo è stato l’organizzatore di queste fonti con un suo progetto, che ha un elemento simbolico: il monte. Su questo egli pone, all’inizio ed alla fine del suo vangelo, un Cristo solenne, in cui si manifesta Dio (teofania); un Cristo in cui raggiunge la sua pienezza la Parola dell’Antico testamento. Lo vediamo anche nella pericope di oggi, in cui  in termini chiari Matteo si riferisce ai giorni di Noè.
[Pasolini nel suo film interpreta un Cristo secondo Matteo, a differenza di Zeffirelli, che ritrae il volto umano e dolce del Cristo consegnatoci da Luca].
 
Commento al testo odierno
Il brano odierno fa parte del discorso escatologico, che si trova nei tre sinottici. Matteo segue con qualche omissione e aggiunta il testo di Marco.
Bisogna tener presente che alla fine del primo secolo, le comunità vivevano nell’attesa della venuta immediata di Gesù in veste di figlio dell’uomo [L’espressione spesso indica semplicemente l'uomo, che di fatto è un figlio dell'umanità. In Daniele, il profeta omonimo (l'ultimo dell'A.T.) vede comparire sulle nubi del cielo uno simile ad un figlio di uomo, simbolo del popolo di Israele, perseguitato in quel momento storico (3° sec.a.C.). C'è poi tutta una letteratura, sia pure minoritaria, del tardo giudaismo che identifica il personaggio a cui si riferisce Daniele con il misterioso Servo di Jahvè.
Sostituendo volutamente al termine Cristo quello di Figlio dell'uomo, Gesù intende spostare l'attenzione di chi lo ascolta dall'immagine di un Messia glorioso a quella di un Messia sofferente].
Il paragone del diluvio è utilizzato da Gesù, non in quanto castigo per la corruzione prevalente al tempo di Noè, ma soltanto per il suo carattere improvviso e inaspettato. Gli uomini di allora, inconsapevoli della tragica sorte che li attendeva, si preoccupavano solo di ciò che riguardava la loro sopravvivenza in tempi normali: mangiavano, bevevano, si sposavano. Improvvisamente però, quando Noè entrò nell’arca, furono spazzati via dal diluvio. Invece di prepararsi i mezzi di salvataggio come Noè, essi erano assorbiti dai loro affari quotidiani. Si suppone che anche loro, come Noè, avrebbero potuto sapere quello che li attendeva, se avessero considerato con altri occhi le vicende del mondo.
Sia all’inizio che alla fine di questa breve rievocazione viene indicato il secondo termine di paragone: così sarà la parusia del Figlio dell’uomo.
Il clima culturale di quei tempi sembra simile a quello di oggi, in cui molti si chiedono se le vicende più terribili che accadono siano segno dell’avvicinarsi della fine del mondo. E parimenti si chiedono cosa fare per non essere sorpresi.
A tal fine Matteo tratteggia il comportamento diverso di due uomini e, in separata sede, di due donne, rappresentanti della passività o della solerzia. Da qui il richiamo di Gesù alla vigilanza: il destino sarà diverso a seconda delle opere da loro praticate. Alcuni saranno presi, cioè, riceveranno la salvezza, ed altri non la riceveranno: noi non possiamo interferire nel tempo di Dio, ma dobbiamo essere preparati per il momento in cui la sua ora si farà presente nel nostro tempo: può essere oggi, può essere da qui a mille anni.
La prima e l’ultima strofa del Salterio di questa domenica esprime, non un presagio terrificante della fine, bensì quella sicurezza, pace e gioia, che si prova nel sentirsi protetti da Dio. Da ciò il  bisogno di farsi messaggeri di pace agli altri:

 

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!

…..

Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: «Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.

 

Una riflessione sul Vegliate

 

Questa parola contiene in sé tutta l’intensità di un imperativo, perché per ora siamo nella notte.
Per credere nella notte il Signore ci ha dato l’unica cosa necessaria a chi sta nel buio, una lampada. Disponiamo solo della sua limitata fiamma per vedere solo quanto basta per muovere pochi passi.
La nostra fede, come la Parola che la genera, non possiede la chiarezza su tutto, non dà certezze incrollabili.
Siamo credenti nella notte che cercano la verità con la stessa fatica con la quale nel buio si cerca il cammino: a tentoni, spesso sbagliando e andando fuori strada.
Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere i fatti di ogni giorno per rendersi conto che tutto riconduce all’evento che attende tutti: l’incontro con il Signore.
Chiediamoci se e come  attendiamo il Futuro che oltrepasserà le nostre attese ‘piccine’. Si tratta di abbandonare il trantran, le abitudini, le usanze, l’ipocrisia che si annida in tante parole e gesti. Si tratta di avere il coraggio di staccarsi dalla maggioranza dei cristiani che, come dice Ignazio Silone, dicono di attendere il Signore, e lo aspettano come si aspetta il tram!
Accorgiamoci dell’irrilevanza di ogni cosa!, o meglio: cerchiamo di essere tutto (interi) in ogni cosa!
E…. non riduciamo il Natale cristiano ad una festa pagana…..

venerdì 18 novembre 2016

XXXIV DOMENICA T.O. anno C - Festività di Cristo Re


XXXIV DOMENICA T.O. anno C - Festività di Cristo Re
 
Lc 23,35-43
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] 35il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». 36Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto 37e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». 38Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». 39Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». 40L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? 41Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». 42E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». 43Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
 
COMMENTO
 
Preambolo
La liturgia segnala la fine dell’anno liturgico. Già la prossima domenica si aprirà il nuovo anno liturgico con l’Avvento, cioè il periodo dell’attesa della venuta sulla terra di Gesù.
La prima cosa che viene da chiedersi è come mai la liturgia celebri un momento umanamente tutt’altro che lieto, come la crocifissione di Gesù, con la Solennità di Cristo Re dell’Universo, il cui titolo pomposo può destare sconcerto, dato che regalità di cui si parla è mille miglia lontana da tutto ciò che appartiene a tutt’altra sfera: servizio, dedizione, umiltà e così via.
In verità la riforma liturgica del concilio Vaticano II ha sottolineato che il Cristo, crocifisso tra malfattori, condannato dai poteri religioso e politico, è un Re-al-contrario rispetto ai re di questo mondo: è un Re che salva gli altri e non se stesso. E l’episodio narrato nella pericope odierna ne è il miglior commento.    
Da un bel po’ di domeniche abbiamo seguito Gesù in cammino verso Gerusalemme, circondato da folle anonime; e spesso, nelle tappe del suo viaggio, abbiamo incontrato persone che lo hanno interrogato: ora autorità giudaiche e romane, ora singoli cercatori di verità.
Al culmine di questo viaggio, la città consacrata per via della sacralità del Tempio, Luca inserisce nell’episodio che narra particolari sui quali si ferma soltanto lui rispetto agli altri evangelisti. Egli vuole dimostrare che il procedere di Gesù verso la grande meta, Gerusalemme, in realtà aveva di mira l’atto supremo della sua missione: consegnare la sua parabola terrena al Mandante, il Padre, per impetrare la salvezza di tutti. Ed è questo il termine-chiave della pericope di oggi: la salvezza.
 
Il testo del brano odierno
Il testo di Luca costruisce i discorsi degli astanti di fronte al Crocifisso denunciando lo scherno, attraverso il quale è messa in dubbio la potenza di Gesù a salvare se stesso. C'è l'allusione alle tentazioni nel deserto, raccontate dallo stesso Luca nel cap.quarto. Le parole, ha salvato altri! Salvi se stesso, si riferiscono ad un Gesù in veste di taumaturgo (la frase sarcastica è simile al proverbio “Medico, cura te stesso!”), e sono una provocazione per incitare Gesù a dare un segno attraverso il quale dimostrarsi capace di salvarsi da sé.
Gli scherni dei militar romani sono un elemento caratteristico del vangelo di Luca. Non si spiega il loro gesto di porgere a Gesù una bevanda a base di aceto, un dissetante usato comunemente dai soldati e dai contadini; non è chiaro se si tratti di un gesto di compassione, come in Giovanni, oppure di crudeltà: rianimare il crocifisso per prolungare le sue ore di vita e quindi di sofferenza. Forse però prevale l'intenzione di prendersi gioco di Gesù. Il particolare dell'aceto comunque è stato conservato nella tradizione per il richiamo al salmo 69, dove il gesto ha un significato ostile. La derisione dei soldati è parallela a quella dei capi giudei, ma si concentra sull'aspetto politico, come nell'accusa nel processo romano. Dal punto di vista narrativo, essa è plausibile, poiché riprende i termini del titulus, scritti su una tavoletta con la sentenza  del condannato, e non indica solo il motivo della condanna, ma è collegata agli scherni dei soldati. La denominazione re dei giudei, presente in tutti e quattro i vangeli, è senza dubbio storica, ed è l'unica cosa conosciuta che sia stata scritta su Gesù durante tutta la sua vita.
Mentre l'evangelista Marco conclude la scena della crocifissione dicendo: “anche coloro che erano crocifissi con lui lo insultavano”, Luca differenzia i due crocifissi. Il primo malfattore si associa agli scherni dei presenti, più precisamente a quelli dei capi, riprendendo in forma negativa il sarcasmo.
Per ben tre volte risuona il salva te stesso.
Non è da dimenticare che sullo sfondo della scena c’è, non la solita folla, ma il popolo, che, però, è in atteggiamento passivo: infatti stava a vedere; a differenza dei capi e perfino dei soldati che deridevano Gesù.
Nessuna risposta da parte del Condannato.
 
La preghiera del buon ladrone e la promessa di Gesù
Il buon ladrone si rivolge direttamente al Crocifisso e lo interpella col vocativo Gesù, esclamazione sorprendente perché unica nel Nuovo Testamento. Il malfattore pentito non si rivolge a Dio, ma a Gesù, e lo riconosce nella sua funzione messianica. E' chiaro l'orientamento cristologico che caratterizza la preghiera cristiana. Per il buon ladrone Gesù è il Messia risorto, col quale ha trovato un rapporto personale. La sua preghiera viene però formulata nella lingua e nelle categorie della preghiera giudaica (giudeocristiana). Il ricordarsi è un elemento tipico di tale preghiera. Si chiede a Dio di posare uno sguardo di bontà, intervenendo a favore dell'orante.
L'ultima parte della preghiera, quando entrerai nel tuo regno, ha diverse varianti testuali di una certa rilevanza. Forse è meglio mantenere il senso semitico della parola: il ladrone aspetta il regno messianico (il tuo regno) dell'attesa giudeo-cristiana: aspettava una salvezza futura situata alla fine dei tempi. Gesù gli garantisce la salvezza oggi. La promessa è solenne e ha il carattere di un correttivo rispetto all'attesa escatologica giudaica del ladrone, tanto più che l’oggi è posto enfaticamente all'inizio della frase, come attualizzazione del tempo di salvezza nel presente (sottolineatura essenziale nella teologia di Luca).
Alquanto inattesa è la parola paradiso. Il termine è di origine persiana e aveva il senso di parco, giardino recintato. La Bibbia greca dei Settanta lo utilizza per indicare il giardino dell'Eden descritto in Genesi. La parola indica quindi un luogo di felicità: nella letteratura apocalittica il paradiso diventa l'Eden escatologico, nascosto ora nel cielo per scendere sulla terra alla fine dei tempi.
Con la carica di entusiasmo che gli è tipica, Luca tratteggia in modo appassionato la tenerezza del Cristo con un avverbio: oggi; è l’oggi della salvezza, in cui il tempo ha una durata destinata a non finire; l’oggi in cui il tempo non verrà fermato nell’immobilità di quella che chiamiamo impropriamente eternità; l’oggi della salvezza definitiva. [il termine greco aion, in latino aevum, significa tempo senza limiti, tempo compiuto, giunto alla perfezione].
In quest’ottica Gesù promette il paradiso al malfattore pentito.
[Ma cos’è per noi moderni il paradiso? Forse conserviamo l’immagine materialistica di una felicità che non sappiamo nemmeno in cosa consista. Al contrario la mistica lo considera come un non-luogo perché è lo spazio dello spirito umano in rapporto intimo con lo Spirito dello stesso Dio.]
 
Due fatterelli per concludere
Una vecchietta serena, sul letto d'ospedale, parlava con il parroco che era venuto a visitarla: Il Signore mi ha donato una vita bellissima. Sono pronta a partire. "Lo so", rispose il parroco. C'è una cosa che desidero. Quando mi seppelliranno voglio avere un cucchiaino in mano. Il parroco autenticamente sorpreso, le chiese il perché di tale stravaganza. Mi è sempre piaciuto partecipare ai pranzi e alle cene delle feste in parrocchia. Quando arrivavo vicino al mio posto guardavo subito se c'era il cucchiaino vicino al piatto. Sa che cosa voleva dire? Che alla fine sarebbero arrivati il dolce o il gelato. "E allora?". Significava che il meglio arrivava alla fine. È proprio questo che voglio dire al mio funerale. Quando passeranno davanti alla mia bara si chiederanno: perché quel cucchiaino? Voglio che lei risponda che io ho il cucchiaino perché sta arrivando il meglio.
 
Un ragazzo chiede alla guida spirituale del gruppo a cui apparteneva: Quale è  il senso della vita?
La risposta è piaciuta anche a me: il senso che tu gli darai.

venerdì 11 novembre 2016

DOMENICA XXXIII T.O. anno C


DOMENICA XXXIII T.O. anno C
 
Lc 21, 5-19
In quel tempo, 5 mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, disse: 6 «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». 7 Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?» 8 Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! 9 Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». 10 Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, 11 e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. 12 Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. 13 Avrete allora occasione di dare testimonianza. 14 Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15 Io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. 16 Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; 17 sarete odiati da tutti a causa del mio nome. 18 Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 19 Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita.
 
C O M M E N T O
 
P R E M E S S A
Per inquadrare il messaggio sul quale Luca costruisce il suo vangelo facciamo una premessa di carattere generale in modo da accostarci al testo con una conoscenza essenziale sulla visione che l’evangelista ha circa la storia. Infatti egli compone una TEOLOGIA DELLA STORIA.
A capire ciò ci aiuta un versetto dello stesso Luca, al cap.16, dove dice: “La Legge e i Profeti fino a Giovanni [Battista]; da allora in poi… il regno di Dio”. Cioè l’antico Israele è alle spalle; da “allora” la nuova era.
Questo “allora” è rappresentato da Cristo, perno attorno al quale gira la storia della salvezza [interpretazione dei fatti della storia in modo da cogliervi il bene che Dio opera attraverso gli eventi].
I seguaci di Cristo vivono tale storia mettendosi in cammino verso la pienezza dei tempi, quando Cristo apparirà sfolgorante al fine di chiudere il libro della storia.
 
 
L’E P IS O D I O
In queste ultime domeniche prima dell’Avvento abbiamo visto Gesù sempre in cammino verso Gerusalemme.
Bisogna tenere sempre presente che il Gesù di cui parla Luca è presentato come se fosse tra i suoi quando ancora era vivo. Mentre, quando scrive, il Cristo accompagna la comunità nel suo cammino di fede. In essa si cerca ancora di capire la sua figura, il suo messaggio, il senso che hanno le parole pronunziate un tempo. E’ chiaro che ciascuno dei quattro evangelisti riesamina la vicenda terrena di Gesù da un proprio punto di vista. Ad esempio Luca non conclude il suo vangelo con la morte e risurrezione di Cristo come gli altri evangelisti, ma con le apparizioni dopo la sua morte, nelle quali, stranamente, gli astanti in un primo momento non riconoscono il Cristo, data la sua impalpabilità. La motivazione dell’esitazione a riconoscerlo è da trovare nel modo di vivere l’esperienza della fede. E questo suona di monito ai nuovi cristiani perché la loro conoscenza di Cristo è sulla misura della loro fede.
Quindi noi, leggendo oggi il vangelo, siamo come i primi cristiani che ripercorrono con la mente ed il cuore l’ultima tappa del cammino di Gesù.
La sua presenza, allora come oggi, è  misteriosa e da cercare nelle profondità del cuore umano.
 
I L  T E S T O
Luca scrive il suo Vangelo quando (l’80 circa d.C.) le persecuzioni contro i primi cristiani sono cominciate. E’ un periodo di crisi per la comunità: gli anni erano passati e nulla era ancora accaduto circa la realizzazione della nuova era. E la speranza si affievoliva.
Luca mira a dilatare il tempo dell’attesa e ad imbastire, come fa sempre, un vangelo della quotidianità, dei diseredati che sono poveri, hanno fame, hanno sete… Matteo e Marco dicono che per seguire Cristo bisogna prendere la croce e seguirlo, Luca aggiunge alla frase: ogni giorno: le epifanie di Dio accadono in ogni evento del presente. Il futuro è nelle sue mani.
Premesso ciò, ad una lettura poco informata,  non si capisce bene il perché Gesù avrebbe fatto previsioni tanto terrificanti e  funeste circa la fine: … v.16 Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; 17 sarete odiati da tutti a causa del mio nome…
La risposta potremo averla addentrandoci un po’ nella lettura del testo.
Luca segue da vicino Matteo e Marco, ma storicizza l’apocalittica, alludendo, prima al giudizio su Gerusalemme, poi al tempo della Chiesa e infine alla venuta finale del Figlio dell’uomo [nel giudizio universale]. Marco e Matteo collocano questo discorso nell’orto degli Ulivi, mentre per Luca Gesù si trova negli atri del Tempio in modo da rivolgere il suo discorso a tutti.
Ecco come imposta il suo racconto:
Gesù approfitta di una fatto accidentale (alcuni ammirano la grandiosa bellezza del Tempio) per toccare uno dei punti nevralgici delle delle paure umane, perché tutto, compreso il Tempio, è destinato a finire.
Gesù vuole i discepoli attrezzati nell’affrontare il disastro della distruzione del Tempio e di altri eventi difficili. Vuole incoraggiarli a rimanere al suo fianco. E perciò raccomanda di
a) non lasciarsi trarre in inganno da sedicenti profeti dell'ultima ora,
b) non preparare prima le autodifese in caso di arresto o incarcerazione.
c) ritrovare la sicurezza nella fiducia che nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto (qui Luca riprende un proverbio di Samuele e lo applica al suo caso). Essi, pur andando incontro a reali difficoltà a causa delle persecuzioni, debbono sentirsi interamente nelle mani di Dio, Padre che non  abbandona mai i suoi figli;
d) perseverare: Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita. Riguardo a questa frase, molti sono stati i commenti e le riflessioni da parte dei Padri della Chiesa e, andando avanti nella storia, da tanti altri.
 
P E R  L’O G G I
la virtù cristiana per eccellenza, l’hypomoné, è la perseveranza-pazienza, che è capacità di non disperare, di non lasciarsi abbattere nelle tribolazioni e nelle difficoltà; ed è anche capacità di sup-portare gli altri per sostenerli.
Pur con il suo linguaggio a­pocalittico il brano non racconta la fine del mondo, ma il fine, il significato, il mistero del mondo circa il male che insidia e distoglie dalla certezza della fede.
Ci sono tempi difficili e bui in cui al credente è chiesto semplicemente di resistere, di rimanere saldo, di custodire l’interiorità, di mantenere la fede, di salvaguardare la propria umanità, di preservare la propria anima dal caos e dalla confusione. Chi persevera è come chicco di grano caduto a terra, nascosto, ma che darà frutto.
Scriveva Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel nel 1944: Noi dovremo salvare, più che plasmare la nostra vita, sperare più che progettare, resistere più che avanzare. Ma noi vogliamo preservare a voi giovani, alla nuova generazione, l’anima con la cui forza voi dovrete progettare, costruire e plasmare una vita nuova e migliore.
La perseveranza che salva l’anima non è dunque nulla di intimistico, ma atto della responsabilità storica di chi osa pensare il futuro, oltre e dopo se stesso.
Il vangelo ci conduce sul cri­nale della storia: da un lato il versante oscuro della violen­za, il cuore di tenebra che di­strugge, dall'altro il versante della tenerezza che salva.

venerdì 4 novembre 2016

DOMENICA XXXII T.O.anno C


DOMENICA XXXII T.O. anno C

 

Lc 20, 27-38
 
In quel tempo, 27si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: 28«Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 29C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. 32Da ultimo morì anche la donna. 33La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 34Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
 
 
COMMENTO
 
IMPOSTIAMO STORICAMENTE L’EPISODIO RIPORTATO NELLA PERICOPE DI OGGI
I SADDUCEI
I sadducei si riferiscono, in questo passo, alla legge del levirato prescritta nel Deuteronomio, uno dei cinque libri di Mosè, i più autorevoli. Per loro, infatti, Mosè era il mediatore tra Dio e il popolo, e le sue prescrizioni restavano sempre valide. Questa legge, prescrivendo che il fratello della vedova aveva diritto di sposarla, oltre a costituire la protezione per la donna, mirava a garantire la continuità della stirpe e la salvaguardia dallo smembramento dei beni di un clan. Il loro appellarsi a Mosè, però, ha anche un altro significato: i sadducei alludono al fatto che, se Mosè offre una simile prescrizione, la quale prevede in ogni caso che una donna possa essere moglie di almeno due uomini, significa che la risurrezione non c’è, perché la questione su chi sarà il marito nell’aldilà non cambia, sia che gli uomini siano due o siano sette.
I redattori del vangelo, forti dell'esperienza della tomba vuota e della scomparsa misteriosa del cadavere di Gesù, rimproverano ai sadducei di non conoscere abbastanza le Scritture e quindi di non aver sufficiente fiducia nella potenza di Dio. Non vengono definiti ipocriti (come spesso si usava coi farisei) ma ignoranti, nel senso di un'ignoranza incredula, morale e intellettuale. Lo si può capire dalla loro stessa domanda, posta con malcelata ironia. Resta il fatto che nella loro concezione circa il matrimonio (che poi rispecchiava la mentalità dominante dell'ebraismo di allora) esisteva solo l'idea di generazione e di posterità.
GLI EBREI
Per l'ebreo la felicità coniugale e familiare era sinonimo di benedizione divina. Del matrimonio non si sottolineavano gli aspetti relazionali e psicologico-esistenziali, ma quelli legali, di etica pubblica ed economici. Si credeva, alla maniera araba, che nell'aldilà vi potesse essere un accrescimento quantitativo di gioie terrene, una sovrabbondanza di quanto già si possedeva sulla terra.
La dottrina della resurrezione e quella degli angeli si sono affermate solo in epoca relativamente recente. Fino ad allora si pensava unicamente all'immortalità del popolo d'Israele o, al massimo, alla resurrezione finale dei soli giusti. Solo in passi tardivi, non riconosciuti da tutti come biblici, troviamo che si ammise la possibilità di una vita ultraterrena. (E’ anche vero che le riflessioni maturate in senso alla corrente apocalittica giudaica, non erano affatto patrimonio di pochi individui).
IL MONDO GRECO-ROMANO
Quando Luca scrive il suo Vangelo, certamente pensa anche al mondo greco, il quale rifiutava l'idea di una risurrezione del corpo. Nel loro pensiero, infatti, l'essere umano ha un'anima che vive nella prigione del corpo, fino a quando la morte interviene per permettere allo spirito di liberarsi da esso.
Siccome Luca scrive per comunità di cristiani provenienti dal paganesimo (probabilmente di origine paolina) spiega brevemente il motivo che sta alla base della domanda dei sadducei.
Quando nell’evoluzione storica avvenne lo sfaldamento delle grandi famiglie patriarcali, le quali ritenevano che solo il capo avesse un'anima, ne seguì una contestazione la quale induceva a credere che ogni singolo componente della famiglia avesse una propria anima.
IL CRISTIANESIMO
Il cristianesimo costituì una rivoluzione culturale, non perché ruppe i rapporti con l'ebraismo, bensì perché, volendo continuare il messaggio di Cristo, dopo averlo tradito politicamente, non restava che riversare sul terreno culturale la portata innovativa di quel messaggio.
La storia, nonostante i tradimenti decisivi nei confronti delle idee di libertà e di giustizia sociale, è comunque andata avanti, favorendo l'approfondimento della coscienza personale.
La questione della risurrezione, inoltre, era un tema di attualità: la fede in una risurrezione personale, sia pure espressa con idee varie e confuse, si era affacciata nel 180-160 a.C.ca., epoca dei Maccabei, seguita da una parte del popolo (es. i farisei) e negata da altri. Da ciò il suscitarsi di grandi discussioni
LE RISPOSTE DI GESU’
Gesù risponde con autorità e sicurezza, prendendo le mosse dalla distinzione tra la vita di questo mondo e quella del mondo futuro. Il primo passo è confutare la lettura materialistica tipica dei sui avversari, proponendo il necessario cambiamento di prospettiva.
Luca utilizza un tipico modo ebraico di strutturare il pensiero, contrapponendo le due diverse condizioni di vita: nel mondo presente il matrimonio è necessario perché l’uomo è mortale, per assicurare la sopravvivenza dell’umanità; nella vita futura le condizioni di esistenza sono completamente diverse: la vita vissuta alla presenza di Dio è immortale; quindi i risorti non hanno più bisogno della procreazione.
Non si tratta però di una svalutazione del matrimonio e della sessualità, come a volte si è pensato, ma di una sottolineatura per evidenziare la novità radicale della risurrezione.
L’evoluzione della mentalità portava ad affermare con convinzione che l’amore tra un uomo e una donna è senz’altro una cosa meravigliosa, e  che trasmettere la vita ai figli lo è ancora di più. Ma non è questo che definisce alla radice l’essere umano. Non è l’amore dell’uomo o della donna che è costitutivo dell’identità umana più profonda. La sua definizione ultima è nella figliolanza divina.
Gesù risponde con serietà a una questione che per i cristiani, influenzati dalle tesi petro-paoline, era di cruciale importanza. Egli non li critica per essersi lasciati determinare dal relativismo dei valori, ma piuttosto per non aver capito che la legge del levirato ha solo un senso storico contingente e che quindi non può avere alcuna sostanziale relazione con la situazione dell'aldilà. In tal modo viene posto in discussione il metodo interpretativo delle Scritture, il quale, per essere cristianamente efficace, da letterale deve diventare allegorico.
L’evangelista approfitta del nostro episodio per togliere ogni equivoco anche a noi: spiega che la risurrezione non significa in alcun modo un prolungamento dell'esistenza presente. La risurrezione non è la rianimazione di un cadavere. È un salto qualitativo.
A considerazioni esistenziali il cristianesimo petro-paolino giunse nonostante il tradimento politico del messaggio originario del Cristo, a testimonianza che ormai i tempi erano maturi all'interno dello stesso ebraismo.
Quello che meno interessa in questo racconto è il caso grottesco raccontato.
E neanche interessa, nella risposta di Gesù, il tema della sessualità, in quanto il sesso è un problema di questa vita. E anche nella legge biblica del levirato ciò che era in gioco non era la sessualità, bensì la discendenza ed il possesso dell’eredità, cosa che nell’altra vita non interessa più.
Perché allora si  tira in ballo questo esempio estremo dei sette mariti? Il riferimento è sottile e molto irridente, non solo nei confronti di Gesù, ma anche dei farisei e della parte più semplice della popolazione, che attendeva la risurrezione e che comunque credeva in una retribuzione finale, in una giustizia che andasse oltre la giustizia, amministrata spesso dal sinedrio.

I sette mariti sono un riferimento ai sette fratelli protagonisti del libro dei Maccabei, la prima lettura di domenica. Il secondo libro dei Maccabei (libro storico ambientato nell’epoca della dominazione ellenistica, che narra la storia della ribellione maccabaica al dominio dei seleucidi) ha uno scopo teologico importante: illustrare la giustizia di Dio che premia coloro i quali gli sono fedeli e punisce i
malvagi. Racconta tra l’altro di questi sette fratelli i quali, pur di non trasgredire la legge divina, accettano di essere uccisi. La sofferenza dell’innocente induce l’autore ad affermare la risurrezione dei morti. Scegliendo questo esempio, i sadducei ironizzano, non solo sull’idea di una giustizia divina ultraterrena e sulla dottrina della risurrezione, ma anche su Gesù e su quanti affermano di credervi.
Nel seguito del discorso, fondandosi sull’Esodo, libro che i sadducei consideravano sacro, emerge l’argomento biblico principale sulla vita eterna: Dio non è dei morti, ma dei viventi.
Gesù è costretto a ribaltare la problematica. Le necessità della terra non sono affatto quelle dei cieli. Se i sadducei conoscessero veramente la potenza di Dio (non semplicemente attraverso la lettura delle Scritture, ma attraverso l'esperienza proposta dal cristianesimo), capirebbero che nella resurrezione vi sarà una nuova creazione: non più quindi rapporti sessuali e coniugali, ma vita più spirituale, o comunque non esattamente identica a quella della natura innocente descritta nella Genesi.
Questo secondo passaggio approfondisce e configura meglio la prospettiva: il motivo di questo non-bisogno di procreare non si fonda sulla tematica che si è sviluppata secoli dopo. Questa è giunta a sostenere la superiorità della verginità sul matrimonio. Invece l’accento posto sulla figliolanza divina fonda l’uguaglianza di tutti; perfino gli angeli non sono superiori agli esseri umani.
Il passaggio attraverso la risurrezione trasfigura completamente l’umanità, introducendola alla pienezza della vita in Dio: vivranno quelli che riporranno tutta la loro fiducia in Dio, l’unico vero vivente. Altrimenti nemmeno Dio sarebbe Dio. Negare la risurrezione significa negare l’esistenza stessa di Dio.
Siamo figli della risurrezione. Questa appartiene al futuro, ma riguarda la vita presente. Ciò che preme a Gesù è ricordare quanto sia grande il pericolo di impostare la propria vita su tanti interessi che assorbono totalmente fino a fare scomparire il vero unico bene: Dio.

 

Mi pare bello concludere pregando da figli di Dio col salmo 16:

 

Custodiscimi come pupilla degli occhi,
all’ombra delle tue ali nascondimi,
io nella giustizia contemplerò il tuo volto,
al risveglio mi sazierò della tua immagine.