venerdì 21 luglio 2017

DOMENICA XVI T.O. anno A


  
DOMENICA XVI T.O. anno A
 
Mt 13, 23-44

[In quel tempo, Gesù] espose loro [alla folla] un’altra parabola, dicendo: 24 «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25 Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26 Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27 Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”28 Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”.29 “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30 Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio"».

31 Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granellino di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32 Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». 33 Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». 34 Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35 perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. 36 Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». 37 Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. 38 Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39 e il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. 40 Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41 Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42 e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. 43 Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!

 
C o m m e n t o
 
Premessa
 
Dopo seria riflessione, mi permetto di commentare scostandomi dall’analisi del testo, con lo scopo di coglierne il senso profondo.

E proposito soltanto di Matteo (che solitamente procede di pari passo con Marco e Luca) far capire bene alla comunità quale è la realtà del Regno dei cieli.

A tal fine pone in scena e fa parlare lo stesso Gesù.

C’è  da chiedersi come mai i discepoli non ne fossero ancora edotti, e il perché forse è da trovare nel fatto che molti provenivano dal discepolato affermatosi attorno al Battista, il quale non vedeva ancora in Gesù il Messia. Né è da trascurare l’influenza esercitata dai farisei, che accusavano Gesù di non distinguere i giusti dai peccatori.

- Se facessimo un salto parabolico per poi fermarci a dare uno sguardo di attenzione a ciò che ne pensano i cristiani del nostro tempo, sentiremmo balbettare risposte imprecise allo stesso quesito.

Il Regno dei cieli non è destinato ai buoni, come insegnavano  e forse insegnano ancora le e i catechisti. Il fatto è che nessuno saprebbe dare una definizione su ciò che è bene e su ciò che è male. Impareggiabile la dimostrazione che ne dà il filosofo ateo dell’ottocento F. Nietzsche: Sono stati gli stessi ‘buoni’, cioè i nobili, i potenti, gli uomini di ceto superiore e di sentimenti elevati a sentire e definire se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim'ordine, e in antitesi a tutto ciò che è volgare, di sentimenti volgari, comune e plebeo.

Questa tagliente definizione non ci porta lontano dalla parabola della zizzania, quando Gesù si oppone all’idea di eliminarla il più presto possibile, v.29 perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Solo i fanatici, che frequentemente degenerano verso la violenza ed il terrore, si propongono le depurazioni per far trionfare la propria ideologia. Gesù risponde che,se si asseconda la tentazione di adoperare il forza e la coercizione (anche di carattere morale) per diffondere il regno di Dio, essa (la tentazione di eliminare i ‘non-buoni’) si ripresenterebbe sempre puntualmente.

Quando i cristiani cominciarono a riunirsi in seno alle comunità [soltanto Matteo usa il termine chiesa], avvenne un altro fenomeno  deviante rispetto all’insegnamento di Gesù. I credenti si riunivano nel giorno del Signore, la domenica, per approfondire la Parola; ma questa poco a poco cominciò ad essere celebrata più che approfondita, in quanto assumeva un carattere rituale, di culto e di conseguenza cominciava a svuotarsi di senso.

Lo stesso fenomeno è avvenuto nel corso dei secoli.

Joseph Ratzinger, nel luglio 1966, a Bamberg, affermava: la  Riforma liturgica ha compiuto un atto di importanza decisiva… (col) rimettere in valore la verità della Parola e, nello stesso tempo, la verità del culto della Parola.

Lo stesso J.R. è tornato sull’argomento più volte. Forte e bella la sua precisazione: la liturgia non consiste nel riempirci del sentimento del sacro, per mezzo di fremiti e di allusioni, bensì nel metterci di fronte alla spada tagliente della Parola di Dio. Essa non consiste nel metterci in un ambiente di solennità e di bellezza per raccoglierci e meditare in pace, ma nell’introdurci nel ‘noi’ dei figli di Dio.

Necessario corollario di quanto detto, non è – come spesso è risultato - la semplice diffusione della Parola di Dio, ma anche la promozione dell’uso della Bibbia in ogni famiglia. Eppure bisogna far attenzione: senza un’istruzione adeguata a capire il testo, si corre il rischio di cadere in forme ambigue: superstizione, devozionalismo, decadenza della fede genuina in pratiche secondarie fatte passare per essenziali. Da qui il diffondersi di fenomeni che hanno a che fare con le apparizioni, il prodigioso, ecc. che rischiano di far dimenticare la via ordinaria della fede, la quale si nutre di conoscenza adeguata e di preghiera. Come ben sintetizza l’allora vescovo Walter Kasper, una scarsa conoscenza della fede è sempre stata il miglior terreno per la superstizione e l’errore.
Il Regno di Dio in Matteo
 

A differenza di Marco che mette spesso attorno a Gesù la folla, Matteo mette quasi sempre i discepoli.

Egli usa spesso la parola mathetes che significa discepolo, rappresentante della Chiesa riunita in ascolto attorno al Cristo, cristiano.

Ma c’è una seconda categoria che per l’evangelista è importante e che è il cuore della predicazione di Gesù stesso: è la categoria  Regno: regno dei cieli, regno di Dio, regno del Padre. E’ un simbolo molto noto nell’AT, soprattutto nei salmi. Ed è questa – Mal’ak adonai, il Signore regna – la dichiarazione fondamentale che Isaia rappresenta, quando parla di un araldo che lo gridava sui colli davanti a Gerusalemme.

Regno è l’azione divina nella storia, e quindi non è identico alla Chiesa, ma ne è una porzione, realizzata per mezzo di Cristo. in sintesi, quando si annuncia il Regno, si annuncia il Signore che agisce nella storia.

Altro punto da definire sul termine Regno, è questo: il mondo ebraico non ama pronunciare il nome di Dio, e perciò usa un modo eufemistico; lo chiama preferibilmente regno dei cieli.

Le due dimensioni fondamentali della chiesa post-pasquale  sono l’annuncio del regno e il modo di praticarlo.

E qui si inserisce il tema dell’accoglienza: chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico non perderà la sua ricompensa (cap.10, vv.40-42).
 
N o t e  s u i vv.31-33
v.31- Un'interpretazione comune della parabola del granello di senape, mette l'accento sulla sproporzione tra il seme iniziale e l'albero che il seme riesce a produrre. Si può rilevare anche un altro significato, per il quale viene in aiuto il vangelo di Giovanni. Secondo la concezione degli antichi, un seme deposto sotto terra muore. Giovanni (12,24) infatti dice: Se il chicco di grano caduto in terra non muore, resta solo; ma se muore produce molto frutto.

La parabola del granello di senape rivela che il regno dei cieli ha esiti imprevedibilmente grandi, anche quando viene messo in atto un piccolo gesto, sovente nascosto o ignorato da tutti.

v.32 - Il significato dell'albero che accoglie gli uccelli del cielo viene rivelato in Ezechiele e Daniele, dai quali è specificato che il regno di Dio assume proporzioni universali, accoglie tutti, soprattutto i pagani, simboleggiati dagli uccelli.

v.33 – La cosa che è messa in rilievo in questo versetto è che il lievito deve essere nascosto, sepolto nella farina per sviluppare la sua azione fermentatrice. Tre staia di farina fornirebbe un pasto a più di cento persone. (Vi è una sola donna, nella Bibbia, che abbia impastato tre staia di farina, cioè Sara, moglie di Abramo, che secondo Gn 18,6 accoglie con tale banchetto i tre ospiti che le annunziavano la nascita di Isacco, il figlio della promessa). Questo inizio profetico legge la storia del regno come un unico straordinario processo di crescita che dagli inizi più modesti, con Abramo e Sara, si svolge nascosta lungo tutto l'Antico Testamento fino all'attuale irradiamento quando il regno assume delle proporzioni universali
S p i g o l a t u r e  su:
L’impegno cristiano perché il Regno dei cieli venga in noi
Centrare la propria vita attorno alla Parola di Dio significa ritrovare il centro della vita spirituale, la quale può alimentare l’annuncio del Vangelo, ieri come oggi. Una spiritualità profondamente radicata nella Parola di Dio è capace di generare e rigenerare alla vita cristiana. Ricordiamo il senso della parabola della zizzania. Ci sono i servi che vedono soprattutto le erbacce, il negativo, il pericolo; Il Padrone, invece, fissa il suo sguardo sul buon grano; la zizzania è secondaria.

Nessuno coincide con il suo peccato o con le sue ombre. Ma se non si vede la luce in se stessi, non la si vedrà in nessuno. Davanti a Dio una spiga di buon grano conta più di tutta la zizzania del campo; il bene è più importante del male; il peso specifico del bene vale di più del peso specifico del male.

Simone Weil nei Quaderni:

- Un cero è l'immagine di un essere umano che ad ogni istante offre a Dio la combustione interiore, l'usura interiore di tutti gli istanti di cui è fatta la vita vegetativa. Questo significa offrire a Dio tutto il tempo.

- Il rischio è quello di "mancare l'appuntamento: Dio e l'umanità sono come due amanti che si sono sbagliati circa il luogo dell'appuntamento. Tutti e due arrivano in anticipo sull'ora fissata, ma in due luoghi diversi. E aspettano, aspettano, aspettano. Uno è in piedi, inchiodato sul posto per l'eternità dei tempi. L'altra è distratta e impaziente. Guai a lei se si stanca e se ne va!

- L'idea di una ricerca dell'uomo da parte di Dio è di uno splendore e di una profondità insondabili. C'è decadenza quando è rimpiazzata dall'idea di una ricerca di Dio da parte dell'uomo.

- È evidente che nella logica dell'amore la follia è di casa, perché non si può amare seguendo gli schemi razionali (…). Dio è folle nel cercare il consenso degli uomini. [Una follia che, secondo Weil, resta tale se si pensa Dio "come essere", non se lo si pensa "come amore"]

Nella "folle logica" dell'amore, acquista senso, significato e valore la sofferenza ed è meno difficile amarne la fecondità, perché essa ci unisce alla onnipotente debolezza di Dio.

Amare il dolore comporta, non dolorismo inutile, ma accogliere una sofferenza da amare nel suo essere gratuita ovvero "senza significato"; da amare nella sua assurdità, se si vuole amare Dio, ben consapevoli che questo amore non richiede sforzo né ascesi, ma solo una resa incondizionata. Come dice Eschilo: ciò che è divino è senza sforzo.

- Noi non possiamo fare nemmeno un passo verso il cielo: la direzione verticale ci è preclusa. Ma se guardiamo a lungo il cielo, Dio discende e ci rapisce. Ci rapisce facilmente.

A. Grün

- Per i monaci il silenzio ha una funzione terapeutica. Esso aiuta a prendere le distanze dall'agitazione e dalla collera, aiuta a conoscere meglio se stessi in quanto non permette di sfogare immediatamente sull'altro la rabbia, ma inizia a trattenerla per analizzarla.

- La serenità ha bisogno di tempo. Non sopporta la frenesia. Devo lasciarmi tempo per essere sereno nelle cose che faccio o che vivo.

- Proprio perdendo si mostra la propria grandezza. Essere un bravo perdente connota la dignità dell'individuo.

- Quando nel Padre nostro preghiamo che Dio non ci induca in tentazione, il significato è un altro. La parola greca è peirasmós, che significa in primo luogo confusione. La vera tentazione del male è quindi la confusione.

- Soltanto dopo aver pianto da solo la mia solitudine posso iniziare con il partner un dialogo che non si trasforma in un'accusa, bensì in un invito a ritornare a parlarsi.

- Silenzio e tacere sono due cose diverse. Il silenzio ci è dato; il tacere sta a noi praticarlo.

B. M. Chevignard

Si sente spesso dire che la rinuncia è l’aspetto negativo del cristianesimo. Forse sarebbe meglio dire che è il rovescio necessario dell’amore.

Etty Hillesum ad Auschwitz

Dentro di me c'è una melodia che a volte vorrebbe essere tradotta in parole. Ma per la mia repressione, mancanza di fiducia, pigrizia, e non so che altro, rimane soffocata e nascosta.

Vivere è cosa buona dovunque, perfino dietro il filo spinato, nelle nostre baracche aperte a tutti i venti, purché si viva pieni d’amore per le persone e per la vita stessa.
 
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in un caos di forme entità luce tenebre
il creato erompe dal cerchio del Tutto
  spaccato di Dio precipitato nel tempo
che va chissà dove - di sua origine ignaro
 
Come ha potuto, il mondo, generare il pensiero
se tutto in esso si comprime tra cieche forze opposte?
Forse lo stesso duro gioco fa riscoprir la frattura
e inonda di lacrime il mondo - Sono esse a ri-generarlo
di libertà



venerdì 14 luglio 2017

DOMENICA XV T.O. anno A


DOMENICA XV T.O. anno A

 

Mt 13.1-23

1 Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. 2 Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.  3 Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare.4 Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5 Un'altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c'era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6 ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7 Un'altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8 Un'altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9 “Chi ha orecchi, ascolti". 10 Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». 11 Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12 Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13 Per questo ad essi parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14 Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. 15 Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca! 16 Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17 In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! 18 Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19 Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. 20 Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l'accoglie subito con gioia, 21 ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. 22 Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. 23 Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno".

 

C o m m e n t o

 

La liturgia questa domenica propone la lettura della prima delle tre parabole raccolte da Matteo nel cap.13.

Tutto il capitolo si muove tra la casa e il mare. Gesù, uscito dalla casa si siede lungo il mare per insegnare come un Rabbi. Ma il discorso che Egli fa non è un insegnamento vero e proprio: è piuttosto un annuncio, una predicazione

- La parabola del seminatore inizia con la frase Quel giorno. Si tratta di una notazione di tipo didattico, destinata a far capire che il discorso è stato fatto in un solo giorno.

Interessante il particolare della casa. E' la prima volta che Matteo parla in modo esplicito della casa abitata da Gesù (si tratta in effetti della casa di Pietro a Cafarnao). Egli, per tessere l’ordito delle parabole e farlo immaginare a chi ascolta, presenta un Gesù che fa ricorso alla realtà, al mondo contadino della Galilea, a ciò che ha visto, contemplato e pensato; un Gesù che usa parole comprensibili, non agli intellettuali, ma a gente semplice, disposta ad ascoltare.

- Il quadro complessivo in cui si collocano le parabole e gli ascoltatori è la chiesa delle origini, quando le comunità cercano di capire il vissuto e la predicazione di Gesù.

Ma Matteo stende il suo vangelo in un periodo successivo, quando nelle comunità già si cominciava  a fare un discorso teologico sistematico e si abbandonava il metodo delle parabole. Perciò il suo discorso è retrospettivo: trasporta al clima della chiesa nascente attorno a Gesù, e nel medesimo tempo si preoccupa di parlare a discepoli del tempo successivo: quello in cui prende forma la redazione matteana, e i discepoli, nell’incombere di condizioni difficili per la diffusione del vangelo, sono vacillanti nella fede e bisognosi di orientamento.

Ecco perché entra in scena un gruppo di discepoli che si rivolge a Gesù per chiedere: v.10 Perché a loro parli con parabole? [loro sono le folle impreparate].

Per comprendere questa parabola e la domanda dei discepoli, per prima cosa cerchiamo di orientarci anche noi con l’ausilio degli esegeti che hanno scavato sul testo in profondità.

a) Il termine parabola proviene da paraballo, in ebraico mäšäl, che alla lettera significa pongo accanto, comparo. Era un termine peculiare dell'oratoria rabbinica

Nelle culture dell’antico Oriente la parola (lógos in greco, dabár in ebraico) non era semplicemente un segno che trasmette un’idea, ma era una forza che trasmetteva la realtà espressa dalla parola stessa

Tuttavia la parabola che oggi leggiamo è raccontata, più che per il fine di spiegare meglio i concetti alle folle, per un altro motivo utile: data l’ostilità di molti nei riguardi della Parola ascoltata, sembrava cosa opportuna sottolineare che ad ascoltarla c’erano persone le quali, data la forma dell’allegoria, non potevano scandalizzarsi. Infatti esse v.13 guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Non è detto con disprezzo. Entra nell’ordine della piccolezza umana poterne fare motivo di beatitudine…

b) Nella pericope è citato il profeta Isaia (vissuto nel 600 a.C.), 6,9-10: Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore, e non si convertano e io li guarisca.

Secondo la lettura dataci dai Settanta l'indurimento del cuore non è né provocato né voluto da Dio, ma autoindotto dal popolo.

Ce lo spiega il Padre della chiesa Girolamo: per evitare di pensare che l'intorpidimento del cuore e l'indurirsi degli orecchi siano dovuti alla natura e non alla propria volontà, il profeta parla in nome di Dio e aggiunge: in parabole e oscuramente ascoltano dunque coloro i quali, avendo gli occhi chiusi, non vogliono vedere la verità.

Noi a nostra volta possiamo dedurre che Gesù, con il suo insegnamento in parabole, non sta facendo altro che rispecchiare la verità della situazione: questa parabola del seminatore, proprio come la semente in essa raccontata, da alcuni sarà colta da altri no. Coloro che, nella folla, non hanno orecchi per ascoltare sono la via, il terreno sassoso e ricoperto di rovi.

c) Ma le parabole evangeliche del regno, oltre alla funzione didattica di chiarificare o di incitare gli uditori alla riflessione, hanno soprattutto uno scopo teologico: esse nascondono agli occhi di chi è mal disposto il mistero: affinché - è l’amara esperienza fatta dal profeta Isaia di fronte all’ostinata insensibilità del popolo eletto, che ora si ripete nella predicazione di Gesù, vedendo non vedrete, udendo non comprenderete e si convertano e sia concesso loro il perdono (Is 6,9-10).

d) Le parabole furono modificate nell’insegnamento della comunità; queste modificazioni emergono chiaramente quando si mettono a confronto le differenti versioni della stessa parabola nei diversi evangeli.

I commenti alle parabole e gran parte delle caratteristiche allegoriche sono quasi universalmente considerati dagli studiosi moderni come elaborazioni fatte dalla Chiesa.

Stupisce in questa parabola la quantità di seme gettato dal seminatore, e chi non sa che in Palestina prima si seminava e poi si arava per seppellire il seme, potrebbe pensare a un contadino sbadato… Invece il seme è abbondante perché abbondante è la parola di Dio, come un seme che deve essere lanciato nel terreno senza parsimonia. Il predicatore che la annuncia sa quanti ascoltatori la sentono risuonare all’orecchio, ma in verità non l’ascoltano; non le fanno spazio nel cuore, e così essa è subito portata via.

Ma ci sono anche coloro che, pur essendo nella folla, hanno orecchi per ascoltare e si sentiranno spinti ad indagare più a fondo la parabola, insieme ai discepoli. C’è sempre qualcuno che accoglie la Parola, la pensa, la interpreta, la medita, la prega e la realizza nella propria vita.

Certo, il risultato di una semina così abbondante può sembrare deludente: tanto seme, tanto lavoro, piccolo il risultato… Eppure la piccolezza non va temuta: ciò che conta è che il frutto venga generato!

Perché la ripetizione del verbo ascoltare?

L'interpretazione classica è fornita nella pericope stessa nei vv.18-23, considerati anch’essi, dalla maggior parte della critica, un'aggiunta redazionale, per cui ai differenti tipi di terreno corrispondono le diverse disposizioni d'animo di chi ascolta la Parola.

Tuttavia alcuni esegeti propongono un'ulteriore lettura, non in via accademica, ma come ipotesi di studio: ai quattro tipi di terreno possono corrispondere i diversi tempi del piano divino di Salvezza, a partire da quello dei progenitori nell’Eden.

Fermiamoci ancora un po’ all’ultima condizione favorevole.

Al seme seminato nel terreno buono, corrisponde il tempo attuale della nostra salvezza, in cui tutti beneficiamo del terreno bello e buono (kalos v.23) che fu il giardino ove fu sepolto Gesù (Gv 19,41) e in cui avvenne la Sua Risurrezione, a partire dalla quale tutti possiamo rendere, se ascoltiamo e comprendiamo i Divini Misteri, chi il cento, chi il sessanta, chi il trenta per uno.

Ma perché così pochi credono e si convertono? Perché questa parola di Dio - se è veramente parola di Dio - non travolge il mondo, non lo cambia in un baleno?

C'è poi la domanda che si ponevano con più dolore, amarezza e sgomento gli ebrei convertiti: perché il popolo non ha accettato la Parola? Perché non c'è una conversione in massa come ci aspettavamo dalle promesse?

- Non si può rispondere a tutti i quesiti, perché dobbiamo interrogare noi stessi e lasciarci travolgere per primi dalla Parola……

= = =

 A noi che ogni domenica ascoltiamo la Parola e accogliamo la sua semina nel cuore, non resta che vigilare e stare attenti: la Parola viene a noi e noi dobbiamo anzitutto interiorizzarla, custodirla, meditarla e lasciarci da lei ispirare; dobbiamo perseverare in questo ascolto, nel custodirla, nel non dissiparla.

Ma dobbiamo essere certi che l’efficacia della Parola di Dio è oltre ogni nostro sforzo. E’ in se stessa.

Afferma Paolo nella lettera ai Romani che si legge nella liturgia odierna: il Vangelo è potenza di Dio. Tocca a noi non perdere mai la fiducia nella forza del seme che può attecchire anche nel pugno di terra e rovi che siamo noi.

venerdì 7 luglio 2017

Domenica XIV T.O. anno A


Domenica XIV T.O. anno A

 

Mt11,25-30

25 In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27 Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. 28 Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero.

 

C o m m e n t o

 

PREMESSA
Nei capitoli 11-12 del vangelo di Matteo, dopo il discorso missionario rivolto da Gesù ai discepoli (cf. Mt 10), si legge una sezione narrativa che testimonia l’esistenza intorno a Lui di un clima di tensione e di contraddizioni. Proprio le città in cui Gesù aveva fatti azioni prodigiose, come Corazin e Betsaida, da lui evangelizzate, non hanno dato segni di conversione.
Il contesto è dunque pesante. E’ un’ora di prova nel ministero di Gesù, un’ora in cui sono possibili lo scoramento e il senso di fallimento.
Eppure Matteo sottolinea che proprio in quel tempo di crisi, Gesù fa sgorgare dal suo cuore un inno di lode gioiosa e convinta a Dio. Lo chiama Padre, in aramaico Abba, perché in questo nome sono racchiusi per Gesù la tenerezza, l’amore e la misericordia.
Certamente qui il linguaggio di Gesù, che risente dello stile semitico, va decodificato. Sembrerebbe infatti che Dio nasconda arbitrariamente qualcosa, la verità profonda, a saggi e intellettuali, mentre si riservi di comunicarla solo ai piccoli, ai poveri e agli ultimi. Come se ci fosse nelle parole di Gesù una condanna dell’intelligenza e un’esaltazione dell’ignoranza… Sappiamo che non è così: Il nostro brano evangelico non va inteso nel senso che Dio precluda la rivelazione ai saggi e agli intellettuali di questo mondo; attraverso Gesù, Dio si rivolge a costoro, ma essi non accolgono la sua parola e, così facendo, induriscono orecchi e cuore.

 

LA  PERICOPE DI OGGI

Il brano del vangelo di oggi, per le risonanze che si ritrovano nel vangelo di Giovanni è detto anche comma giovanneo; infatti il linguaggio, del tutto inusuale in Matteo e nei sinottici in genere, mostra strette affinità con il quarto vangelo, e può essere considerato a buon diritto come un ponte fra la tradizione sinottica e quella giovannea. Comunque ad un esame letterario più accurato si rilevano facilmente tracce della letteratura sapienziale, apocalittica e profetica in genere.
Secondo alcuni esegeti, questo brano proviene dalla fonte Q  [questa conterrebbe una raccolta di detti di Gesù, forse trasmessa per via orale, ma che a un certo punto dovrebbe essere stata posta per iscritto. Si è giunti a tale conclusione perché sia in Matteo, sia in Luca è dato lo stesso ordine al materiale raccolto]
Luca che qualifica la preghiera di Gesù quale sussulto di gioia ispirato dallo Spirito Santo. In particolare Matteo inserisce il passo in una sezione che evidenzia l'incomprensione e il rifiuto opposti a Gesù, quasi a controbilanciare l'incredulità delle città che furono testimoni dei prodigi di Cristo.
vv. 25-26
L’inizio - In quel tempo - specifica una temporalità in cui si realizzano scelte importanti, e perciò è chiamato aion, in quanto  è il tempo di Dio [un tempo oltre il tempo, cioè l’eterno], che si distingue dal tempo chiamato chrònos, scandito nei suoi vari momenti, il tempo dell’attesa e dell’affidamento. (C’è anche un altro modo evangelico di definire il tempo: kairòs. Nella nostra vita, come in ogni vita, c’è un momento nel quale riconosciamo l’agire di Dio, e allora è il tempo della benedizione).
Le parole che Matteo pone in bocca a Gesù - Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra… sono ricalcate su quelle del profeta Isaia 29, 14: perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti… Riportate da Matteo, esprimono in sintesi tutta la novità cristiana: il Dio di Israele, il Signore del cielo e della terra, il Padre, l'infinito Tu, al quale Gesù può rivolgersi con riconoscente amore, per rendergli lode e per ringraziarlo.
Nel linguaggio biblico rendere lode significa celebrare la divina sapienza e onnipotenza dispiegata nelle opere mirabili della creazione o nella storia della salvezza.
L’espressione Signore del cielo e della terra conferisce all’esclamazione di Gesù un certo tono di
solennità.
… hai nascosto queste cose - E’ proprio del genere apocalittico esprimersi in questi termini per indicare il mistero di Dio, che si può nascondere o rivelare. Ma la volontà di Dio è sempre positiva: anche nascondendosi ai sapienti e ai saggi, cioè gli scribi e i farisei che rifiutano Gesù come il Cristo, si vuole affermare che la via per raggiungere i misteri del regno non ha esclusioni.
… così hai deciso nella tua benevolenza. Il greco eudokia è l'equivalente dell'ebraico rashòn, che
esprime l'idea della benevola volontà di Dio nel guidare e indirizzare tutto e tutti a Sé.
v.27. Questo versetto è uno dei più densi di contenuto dottrinale non solo del vangelo di Matteo, ma di tutto il N.T. In esso sono condensati tre enunciati che riguardano la donazione di ogni potere al Figlio da parte del Padre; la reciproca esclusiva conoscenza tra Padre e Figlio; la necessaria mediazione del Figlio per raggiungere la conoscenza del Padre. Il conoscere è la conoscenza che, nel linguaggio biblico, non è semplicemente un'operazione dell'intelletto, ma esprime l’intima familiarità, l’amore sponsale che genera la vita. [L'inconoscibilità di Dio è un punto fondamentale della religione d'Israele, che la letteratura sapienziale, in tempi più recenti, ha cercato di illuminare con la personificazione della divina Sapienza].
v.28 Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Il detto espresso è esclusivamente di Matteo. E’ l'invito che la Sapienza rivolge ai piccoli già nell'A.T., al fine di ottenere il Dono supremo, lo Spirito Santo, l'Acqua della vita.
La traduzione di pephortisménoi, ‘stanchi e oppressi’, si riferisce agli oppressi dal peso della Torah; infatti gli scribi avevano caricata la Legge Antica di tante osservanze, prescritte, in caso di inosservanza, sotto la minaccia della maledizione. [Questo versetto è frutto di un finissimo lavoro teologico, certamente elaborato da uno scriba conoscitore della tradizione sapienziale. Richiama quanto nella Bibbia si dice della Sapienza (Sir 6,28): Alla fine in essa troverai riposo, ed essa si cambierà per te in gioia.].
v.29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita
Il giogo della Torah, imposto ad ogni giudeo pio, era particolarmente duro nell'applicazione che ne
facevano gli scribi. Pietro lo chiamerà un giogo insopportabile (At 15,10) e Gesù condannerà aspramente gli scribi per aver imposto agli uomini un peso così grande (Mt 23,4).
Il giogo di Gesù è il giogo del regno dei cieli annunciato e proposto ai suoi seguaci, il quale non ha nulla a che vedere con quello della Torah interpretata da Scribi e Farisei. Anzi Gesù presenta Sé stesso come mite e umile di cuore.
Nell'originale greco il termine umile è tapeinós, dal quale deriva il nostro tapino, applicato a chi è povero, misero, infelice, basso, debole; è un vocabolo di grande rilievo nella spiritualità neotestamentaria. Per tre volte Gesù ripete la frase: Chi si innalza sarà umiliato (tapeinós) e chi si umilia sarà innalzato. Anche Maria, la madre di Gesù, è consapevole che questa è la vera strada per la gloria e nel suo cantico, il Magnificat, esclama: il Signore rovescia i potenti dai troni ed innalza gli umili, dopo aver dichiarato che Dio ha guardato all'umiltà della sua serva.
v.30  Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero. La frase fa avanzare ai moderni la pretesa che Gesù voglia affidarci un legame che non costa sacrifici. Di per sé ogni religione comporta un peso. La differenza tra le altre religioni e quella annunciata da Gesù è che il giogo cristiano, abbracciato per scelta ed amore, diventa lieve.
 

RIFLESSIONI

- Non si sa quale esigenza irrita di più ascoltando questo Vangelo: se l’abbandono totale dei legami familiari o il grado di amore richiesto. E’ certo che le parole di Gesù provocano fino allo scandalo. Viene da chiedersi: come si concilia ciò con il fatto che il nostro cammino di fede ci ha fatto scoprire il Signore come il buon Pastore, che ad acque tranquille ci conduce (Sal 23)?.
Come potrebbe un Padre, la cui grazia è nel cielo e la cui fedeltà fino alle nubi (Sal 36), impedirci di vedere il minimo segno dell’amore di Dio nella nostra vita? Egli è nella sicurezza familiare, nella salute del corpo e dell’anima, nella consolazione interiore di fronte ai colpi del destino e negli inattesi avvenimenti felici di ogni giorno. E per questo che cerchiamo la presenza del Signore e ci mettiamo al suo seguito.
Per trovare una spiegazione al quesito dobbiamo capire che Dio ci fa resistenza quando vogliamo mescolare i nostri interessi personali con la nostra relazione di amicizia; quando separiamo i doni ricevuti da Colui che ce li dona, per costruire un piccolo mondo egoista alle sue spalle. In particolare Egli si erge contro l’egoismo tinto di religiosità, e vuole difenderci dagli inganni e dagli errori. Le sue esigenze, così irritanti, mirano al nostro vero bene.
L’argomentazione più seria è la seguente. L’imitazione di Cristo è inseparabile dalla croce del Calvario.
- L’ultima parte del vangelo di oggi ci consegna tre verbi che suonano come una chiamata: venite, prendete, imparate. A questi segue una promessa ripetuta due volte nel testo, all’inizio e alla fine:  io vi darò ristoro.
Gesù sembra dirci con queste parole che il contrario del riposo non è la fatica, ma la preoccupazione che nasce dall’aver scelto male i punti di riferimento del nostro vivere. Se ci pensiamo bene, nello scorrere dei nostri giorni è proprio così: ad affaticarci, non è mai la fatica in se stessa, anzi, ci sono fatiche che ci riempiono di gioia, che ci fanno vivere il senso del compimento. Ciò che affatica invece è l’affanno causato dall’esserci caricati di un peso che non è il suo giogo. Suo, perché, ogni giogo si porta in due (da qui la parola coniuge, con-iugo, cioè sotto lo stesso giogo). La gioia di faticare con colui che ami non stanca mai, ma rinvigorisce.
- Ferdinand Ebner (filosofo austriaco convertito 1888-1031) afferma: Un commento al Vangelo non si deve scrivere ma vivere. E ci sono molti più commenti viventi al Vangelo di quanto possa sembrare a prima vista.
Il filosofo tedesco ateo dell’Ottocento, Friedrich W. Nietzsche così si esprime: Se la buona novella della vostra Bibbia fosse anche scritta sul vostro volto, non avreste bisogno di insistere così ostinatamente perché si creda all'autorità di questo libro: le vostre opere, le vostre azioni dovrebbero rendere quasi superflua la Bibbia perché voi stessi dovreste continuamente costituire la Bibbia nuova.
Madre Teresa di Calcutta ci lascia una preghiera:
Dio, Padre onnipotente, tu ci fai camminare in un mondo pieno di belle cose e tra doni a noi destinati. Noi ti rendiamo grazie. Infatti il fascino della tua creazione ci dona il gusto della gioia e del bene; sì, essa ci mantiene nella certezza che tu vuoi il nostro bene e che ci hai creati perché possiamo partecipare a una pienezza inimmaginabile nel tuo amore trinitario. Donaci il senso di ciò che è vero e sicuro! Donaci la capacità di discernere tra la realtà e le apparenze ingannatrici, tra il durevole e l’effimero! Allora non saremo delusi dalle promesse di Felicità della tua creazione. Questo mondo, nella sua infinita varietà, non sarà la nostra rovina, ma la via della nostra salvezza, al termine della quale Tu già ci attendi.

 

 

* Un testo consigliato

Piero Stefani, «Gli uni e gli altri». La Chiesa, Israele e le genti. Una ricerca teologica, collana «Nuovi saggi teologici» 116, EDB, Bologna 2017, pp. 304, € 26,50.

Testo impegnativo, ma che affronta un punto teologico importante e ineludibile, che non ha raggiunto ancora da parte di alcuno un’esposizione equilibrata e completamente soddisfacente.
Stefani propone il testo integrale del documento – da lui lodato – stilato dal Gruppo interconfessionale Teshuvah di Milano Chiesa e Israele. Punti fermi e interrogativi aperti (ottobre 2013, pp. 267-282). Vale la pena riportare i quattordici titoli dei paragrafi (che riportano anche alcune domande che spingono alla ricerca futura), per avere un’idea del percorso da seguire nella ricerca teologica. L’elezione di Israele è irrevocabile; Gesù è ebreo e lo è per sempre; I primi seguaci di Gesù erano ebrei e il loro movimento nasce come intraebraico; Il movimento dei credenti in Gesù Cristo ha una propria specificità che lo distingue dalle altre correnti giudaiche; Gli scritti neotestamentari sono incomprensibili senza far riferimento alle Scritture d’Israele; La Chiesa, in virtù della sua origine, ha un legame permanente con il popolo d’Israele; È illegittimo definire la Chiesa nuovo Israele; La teologia della sostituzione prospetta un’immagine di Chiesa non conforme al Nuovo Testamento; L’ebraismo, in tutta la sua storia, è stato ed è una realtà multiforme; Nel corso della sua storia il cristianesimo non ha ignorato la perdurante esistenza del popolo ebraico, ma lo ha definito in base a categorie quasi sempre autoreferenziali e ostili; È inammissibile la missione verso gli ebrei da parte della Chiese cristiane; Il dialogo cristianesimo-ebraismo è condizione necessaria di ogni ecumenismo tra cristiani e premessa di una corretto rapporto con le religioni; Nel dialogo cristiano-ebraico non può essere ignorato il rapporto del popolo ebraico con la sua terra; Nel dialogo cristiano-ebraico oggi è irrinunciabile la riflessione sull’evento Shoah; L’attesa delle “cose ultime” accomuna e distingue ebrei e cristiani nella speranza. Chiude il volume una ricca bibliografia (pp. 283-295).