venerdì 29 settembre 2017

DOMENICA XXVI T.O. ANNO A


DOMENICA XXVI T.O. ANNO A

Mt 21, 28-32
In quel tempo, disse Gesù ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 28 Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna. 29 Ed egli rispose: Non ne ho voglia. Ma poi si pentì e vi andò. 30 Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: Sì, Signore. Ma non vi andò. 31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?. Risposero: Il primo. E Gesù disse loro: In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32 Giovanni infatti venne a voi nella via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.

 

C O M M E N T O

 

1) PREMESSA

= I capp. 21-22 del vangelo di Matteo trasportano nel tempo in cui Gesù, dopo l’ingresso trionfale a Gerusalemme, consegna alle comunità nascenti i discorsi contenenti, attraverso parabole, gli insegnamenti più importanti e cruciali,  che debbono qualificare il discepolo di Cristo.

Nell’approssimasi della condanna e morte del Cristo, si intensifica il conflitto tra Lui che predica il Regno e l’establishement giudaico. Matteo ritrae a chiare lettere la posizione polemica della sua comunità (ma nelle altre avviene qualcosa di analogo) nell’atto di rompere i ponti con le istituzioni. Lui (che si può definire il più ecclesiale degli evangelisti), lascia delle testimonianze de visu sulla/e comunità dei discepoli. Il suo intento principale, come traspare dal suo vangelo, è dare ai primi aggregati della cristianità una consistenza morale fondata sulla fede che, nel fluttuare degli eventi, non potevano avere senza un’adeguata guida. Tra l’altro è lui il primo e il solo a denominare le comunità ekkLesía.

 

2) MATTEO

= E’ doveroso, nel commentare il suo vangelo, soffermarsi un po’ sulla figura di Matteo per delinearne alcune caratteristiche che abbiamo involontariamente trascurato durante l’anno liturgico che sta per tramontare. Tra non molto, con l’arrivo dell’Avvento, Matteo ci lascerà e passerà il testimone a Luca, l’evangelista dell’anno B.

Il suo Vangelo è stato ritenuto a lungo il primo, in ordine di tempo, dei quattro testi canonici. Ora gli studi mettono al suo posto il Vangelo di Marco, a cui attingerà ampiamente Matteo.

Diversamente dagli altri tre, il testo di Matteo non è scritto in greco, ma in lingua ebraica ‘paterna’ (secondo gli scrittori antichi); e quasi sicuramente si tratta dell’aramaico, allora parlato in Palestina. Egli, infatti, ha voluto innanzitutto parlare a cristiani di origine ebraica. Naturalmente in seguito giungerà a noi la traduzione in greco.

= Il dipinto di Caravaggio  (collocato in copia qui sopra) identifica Matteo come l’altra ‘pietra’ fondante della Chiesa, assieme a Pietro. L’Artista, in questa sua celebre opera pittorica titolata La Vocazione di Matteo, mostra Cristo che, tendendo semplicemente il braccio, sembra voglia dire a coloro che in quel momento cercano Pietro: Eccolo lì Pietro, è lui, Matteo. La cosa si spiega bene. Se Pietro è destinato ad essere capo della chiesa, è Matteo col suo vangelo a dare il fondamento più valido alla chiesa nascitura.

= L’evangelista profonde tutto il suo impegno nello scrivere il suo vangelo. Il suo è un lavoro di 1) elaborazione e ricostruzione del materiale preesistente (la fonte Q); 2) raccordo tra l’ANNUNCIO EVANGELICO e la fonte giudaica, ancora basata sulla Torah nella sua rigida interpretazione; 3) impostazione dei principi di quella che sarà chiamata da molti la Chiesa.

Non è da trascurare l’attenzione dovuta alla sua capacità di esprimersi nella maniera più semplice e sobria, nonché ricca del nucleo essenziale degli insegnamenti di Gesù.

= In ogni brano è presente un Gesù che pone al centro dei suoi insegnamenti il Regno. Più degli altri evangelisti sottolinea che, attraverso Cristo, il vero Israele non passa più per l’Israele razzista; attraversa piuttosto l’interno del nuovo Israele aperto ai pagani, cioè coloro che erano considerati estranei al esso. Questo nuovo popolo non si sostituisce all’antico, ma lo porta a compimento.

Si deve soprattutto a Matteo l’aver ben precisato che, nonostante la chiara matrice ebraica, il cristianesimo ha compiuto uno iato, un taglio netto con essa (la matrice). I credenti ora avvertono, attraverso il suo vangelo, la presenza del Cristo nell’assemblea dei credenti, riunita nel suo nome e nel perdono dei peccati che viene elargito a tutti. Ed è significativo che al centro di ogni scena costruita dall’evangelista, sia presente quasi sempre, oltre che Gesù, anche Pietro.

= La parabola che leggiamo oggi è di una semplicità che potrebbe far cadere in una trappola. Molte volte, infatti, può verificarsi una specie di sintonia solo apparente. Da un certo punto di vista il discorso è lapalissiano: si può dire sì e fare no, e viceversa. Chi non direbbe subito, dopo aver letto la pericope, che il migliore dei fratelli è colui che, pur avendo detto un frettoloso no, si ricrede e fa. Le parole non costano, i fatti costano e… meritano.

Alla fine della parabola, nel v. 32, viene ripetuto tre volte il verbo credere. In questo contesto significa obbedire alla via della giustizia predicata da Giovanni, che è la stessa via di Dio insegnata anche da Gesù, cioè la volontà del Padre che è nei cieli. Gesù e Giovanni non sono in contrasto. Come non sono in contrasto giustizia ed equità nella pericope della scorsa domenica. DARE UN DI PIU’ non contraddice il DARE IL GIUSTO; lo perfeziona. Questo principio è di grande profondità. Chi vive l’amore del Padre e perciò vede negli altri dei fratelli, dovrà cambiare radicalmente mentalità e, di conseguenza, modo di agire. Ci vuole l’intera vita per capirlo sempre più. Alle volte le depressioni (caratteristica del nostro tempo!) si potrebbero curare con l’antidoto al vuoto esistenziale: l’AMORE che diventa il tutto, riempie senza mai saziare e non conosce inaridimenti, perché il suo Oggetto si attinge alla FONTE DELLA VITA.

Matteo, che ci presenta un Cristo senza sdolcinature di sorta, alquanto severo nel suo andare sempre all’essenza delle cose, chiuderà il suo vangelo, lanciando il suo unico messaggio: Dio è con noi.

Le ultime parole di Gesù lo confermano ancora: Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo.

 

3) ANALISI DEL TESTO DELLA PERICOPE

Matteo racconta la prima di tre parabole tremende, tutte e tre dirette contro i dirigenti religiosi (non contro il popolo di Israele): 1) la parabola dei due figli; 2) la parabola dei vignaioli omicidi;  3) la parabola del banchetto del Regno.

28 Gesù comincia con il chiedere il parere dei presenti, tra i quali stanno sacerdoti ed anziani. Altre volte Gesù ha chiesto il parere di Pietro e dei discepoli. Con questo cerca di interessare gli ascoltatori, chiedendo un parere sulla parabola. Un uomo, ricco proprietario, ha due figli. Al primo si rivolge con il dolce nome di figlio, téknon, e l'invita a recarsi sémeron, oggi, nella vigna.

29-30 (Per evitare possibili confusioni, ricordiamo che alcuni manoscritti presentano un ordine diverso).

La risposta del ‘figlio disobbediente’ è ossequiosa: Vado, Signore, ma non andò.

La risposta del ‘figlio obbediente’ è irrispettosa: Non mi va!. Poi avviene il ripensamento; all'ultimo si pente; ma c’è da notare che, mentre il padre l`ha chiamato: Figlio, lui ha risposto chiamandolo: Signore.

31 La parabola è finita. Chi dei due ha fatto la volontà del padre?

É la stessa parabola che spinge a compromettere gli ascoltatori perché prendano posizione in merito; sono

posti di fronte all'alternativa; e infatti danno una risposta (quella risposta che non avevano voluto dare sul battesimo di Giovanni). Non vi è dubbio. L'obbedienza non è fatta di parole sterili e disimpegnate, ma di fatti concreti e precisi.

32 Venne infatti a voi Giovanni... Molti autori concordano nell'attribuire questo versetto alla redazione di Matteo, che intende così collegare la parabola sia a Gesù sia a Giovanni Battista (di cui si era parlato poco prima); il rifiuto di Giovanni è il rifiuto di Gesù. L’evangelista accentua la sua denuncia affermando che i gruppi più disprezzati dall’élite religiosa (pubblicani e prostitute) la precederanno nel cammino verso il Regno. L’aspetto notevole è che il verbo greco proágousin sta al presente, cioè già ora i pubblicani e le prostitute vi precedono nel cammino verso il Regno. A giudizio di Gesù, quelli che sono più in ritardo nel cammino verso Dio sono proprio quelli che si sentono a posto, pensano di precedere gli altri, vedono se stessi come l’esempio da seguire.

 E qui il Gesù di Matteo non si lascia sfuggire l’opportunità di fare una specifica denuncia. Quando era venuto Giovanni Battista a chiedere la conversione, i peccatori pubblici si convertirono, mentre i sacerdoti e le autorità religiose non sentirono il bisogno di mutare comportamento, poiché la facciata era salva. Viva l’ipocrisia del potere!

 

4) PREGHIAMO - con sentimenti di amore profondo - IL SALMO 23

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.
      Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
      e del tuo amore, che è da sempre.
      I peccati della mia giovinezza
      e le mie ribellioni, non li ricordare:
      ricòrdati di me nella tua misericordia,
      per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via. 

 

E LEGGIAMO PAOLO CHE SCRIVE COSÌ AI FILIPPESI

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù.

venerdì 22 settembre 2017


XXV DOMENICA T.O. anno A

 

Mt 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2 Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3 Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4 e disse loro: Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò. 5 Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6 Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?. 7 Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella vigna. 8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. 9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10 Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro.1 1 Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12 dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. 13 Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: 15 non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?. 16 Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi.

 

MIA PRESENTAZIONE (personale)

= La prima cosa da fare, nel leggere una pericope del vangelo, è conoscere la piattaforma, l’intenzione e la collocazione nel tempo in cui è stata scritta. Si scoprirà subito che, soprattutto nel vangelo di Matteo, sono rivisitati i testi dell’AT. Senza questa rivisitazione, si finirebbe per immaginare ciò che si legge come riproduzione della realtà. Invece dobbiamo, con l’aiuto esegetico, scavare nelle espressioni per trovare la fonte a cui l’evangelista ha attinto per impostare un racconto.
Ciò che si racconta sotto forma di parabola 1) è sollecitato dalla situazione esistenziale vissuta in seno alle prime comunità, le quali si confrontavano e pregavano per capire cosa significasse essere cristiani; 2) è ispirato alla tradizione biblica, ricca di tanta storia; 3) lo si fa diventare materiale nuovo e tale da farsi ascoltare in ogni tempo e in ogni situazione.  
= Nelle altre letture liturgiche che accompagnano quella del vangelo si trovano le frasi e le riflessioni più appropriate che aiutano il credente a cogliere la Parola di Dio. E’ come se l’azione del racconto in parabola fosse al di là del tempo e del luogo in cui è stata scritta.
= Il vangelo commenta ed è commentato dalle altre letture. Infatti il Nuovo Testamento non rivoluziona l’Antico; lo rilegge, lo riscopre, lo fa diventare, in un certo senso,  nuovo.
= Con un’espressione felice oggi si parla di contemplazione del Testo sacro.
Bisogna imparare il metodo contemplativo attraverso una lettura ‘ascoltata’ interiormente; ed è da aggiungere che, quando si parla di interiorità, non si tratta di emozioni soggettive, ma di spirito, cioè dell’azione di Dio nella persona. Infatti, quando, dopo esse essersi serviti dell’esegesi, si rileggono le citazioni più  discusse, si debbono prendere le distanze dalle parole che forse ingenuamente sembrano dette da Gesù, in quel dato momento, in seno al racconto. Bisogna trascendere ciò che si legge ed ascoltare interiormente le parole che da antica data Dio aveva rivelato ai profeti e ad altre persone ispirate. Si giunge così al testo creato per e dalla comunità in preghiera (la lettura solitaria è rischiosa), e che interpella la coscienza individuale e comunitaria. Ecco, allora, che le parole sono dette anche per me questo momento.
= Vi racconto  la mia esperienza. Dopo aver rigorosamente consultato l’esegesi, mi ritrovo a dover rileggere il vangelo ricalcato sui Profeti, i salmi, l’appassionante commento di Paolo, l’interpretazionedei Padri della chiesa, ecc., Dimentico alquanto il racconto, e medito sulle frasi che vanno dritto alla mia mente e al mio cuore, e mi pervadono lo spirito. E sento vicini a me gli altri….
= Un esempio. Nella prima lettura liturgica di oggi, Isaia, mentre il popolo di Israele era in esilio, quindi 600 anni prima di Cristo, dice: cercate il Signore mentre si fa trovare; invocatelo, mentre è vicino, perché i pensieri di Dio non sono i vostri pensieri. Il profeta scrive per gli Ebrei che erano in schiavitù a Babilonia e che già progettavano di ricostruire, quando fossero tornati a Gerusalemme, il tempio, la città, tutto come era prima; e di far vendetta contro gli attuali oppressori. Mi chiedo come rileggiamo queste parole oggi. Ecco: è proprio Isaia a dire che le vie di Dio sono nuove, che non si ricopia il passato; è proprio lui ad aggiungere che tali vie si riconoscono come si riconosce l’arrivo della primavera dallo spuntare delle gemme nei rami degli alberi.
Come non sentire attuali ed intime in me queste parole oggi?

 

COMMENTO AL TESTO

1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna.  
Questa è la prima di tre parabole aventi tutte come tema la vigna e compare soltanto nel vangelo di Matteo. L’immagine della vigna è un richiamo al popolo di Israele che veniva raffigurato in essa. Si rifà alla situazione di Israele dove esistevano grandi latifondi e dove i braccianti venivano assoldati giorno per giorno secondo le necessità del lavoro. Pertanto ci porta nella vita quotidiana dei campi in Palestina, in una terra sassosa e scoscesa, che non impediva la coltivazione della vite.
La giornata lavorativa era lunga 12 ore, dalle sei del mattino alle sei di sera. Il padrone di casa è il proprietario terriero (o chi per lui, in sua fiducia) che assumeva gli operai con un contratto giornaliero.
2 Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3 Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4 e disse loro: Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò. 5 Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto.
Matteo non si dilunga molto sul dialogo tra il padrone e i suoi lavoratori. Il datore di lavoro promette loro il pagamento di un denaro e li manda a lavorare. L'accento è posto sul prezzo negoziato: un denaro d'argento per un giorno,  che era una buona paga.
Gli operai che il padrone incontra durante la giornata se ne stanno argoi, disoccupati. A costoro il padrone non quantifica un salario, ma promette quello che è giusto. Ciò crea un effetto di suspence: quanto sarà la loro ricompensa? A cosa corrisponde un salario giusto? alle ore effettivamente lavorate o a cos'altro?
La presenza di questi uomini alle nove del mattino sulla piazza, luogo di raccolta dei braccianti, indica la loro disponibilità ad accettare qualsiasi lavoro che venga loro richiesto.
6-7  Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?. 7 Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella vigna.
L'eccesso di manodopera produce dei disoccupati. A costoro il padrone dà una parola di speranza quando si fa tardi - Andate anche voi nella vigna, e non parla del salario che intende dare loro.
8-14 Invece di raccontare il fatto, come fanno i Celebranti dopo la lettura del vangelo, noi qua ci fermiamo a rileggere il testo, che è di facile lettura: Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. 9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10 Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro.11 Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12 dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. 13 Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te:
Negli operai della prima ora si crea l'attesa di ricevere di più, rispetto a coloro che sono arrivati dopo, soprattutto se ultimi. E invece ricevettero ciascuno un denaro: è questo il vertice narrativo della parabola, che capovolge totalmente l'aspettativa. Il contenuto della loro lamentela è ispirato alla logica perversa del paragone, del confronto con gli altri. Dicono: tu li hai fatti uguali a a noi.
L’appellativo amico, hetaire, con cui il padrone si rivolge a uno dei primi, in Matteo assume, come in altri passi del suo vangelo, una sfumatura di rimprovero. In Mt 22,12 viene chiamato amico l'uomo che entra al banchetto di nozze del figlio del re senza avere l'abito nuziale. In Mt 26,50 Gesù chiama amico Giuda che gli ha dato il bacio nell'orto del Getsemani, segno convenzionale per coloro che lo avrebbero arrestato. Come si può intuire, si tratta di due situazioni estreme, in cui chi chiama amico l'altro, lo fa per fargli comprendere - in modo familiare, anche se il tono è di rimprovero - che ha compiuto qualcosa di sbagliato.
= Le parole del padrone costituiscono la vera interpretazione della parabola. Gesù intende sottolineare che l’ingresso nel regno dei cieli non va considerato come una ricompensa dovuta per diritto, in base ai meriti personali, ma come un dono gratuito, espressione della misericordia infinita di Dio. 
15 non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?. 16 Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi.
La parabola termina con una massima che dovrebbe darne la chiave di lettura: «Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi». Questa massima appare anche altrove e ciò significa che originariamente era autonoma. E’ stata utilizzata da Matteo come conclusione della parabola a motivo del fatto che il padrone ha pagato il salario agli operai cominciando dagli ultimi. Ma questo è un dettaglio secondario, introdotto nella stesura del racconto per permettere il dialogo tra il padrone e gli operai della prima ora. La massima quindi non esprime direttamente il significato della parabola; tuttavia non è in antitesi con essa. Anche Dio, come il padrone della parabola, stabilisce il suo regno cominciando dagli ultimi, manifestando così la sua misericordia infinita e il suo amore verso i poveri e i diseredati: gli stessi che nelle beatitudini sono dichiarati beati.
E' questo il vero problema degli operai della prima ora: non accettare che altri diventino partecipi dei loro stessi beni, della loro stessa eredità.
Certamente Dio ha stravolto le logiche umane. All'interno della comunità cristiana delle origini vi erano i giudeo-cristiani che pensavano di avere più importanza dei cristiani provenienti dal paganesimo poiché avevano servito il Signore da molto più tempo e provenivano da una lunga storia di fedeltà al Dio di Israele. Matteo li ammonisce. Dio vuole che tutti siano salvi e che tutti si accettino tra di loro come fratelli.
= Le implicazioni sociali della parabola sono molto importanti. Il fatto che tutti siano uguali davanti a Dio significa che a ciascuno è dovuto quanto è richiesto per la sua sopravvivenza e per la sua realizzazione come persona. Nessuno deve essere giudicato per quanto è capace di produrre, in campo sia economico che sociale o religioso, ma in base alla sua dignità umana. D’altra parte nessuno deve lavorare unicamente per la ricompensa che pensa di ricevere, in questo o nell’altro mondo, ma unicamente per un servizio d’amore ai fratelli. Naturalmente ciò implica una formazione adeguata, che è il frutto più bello di una vita autenticamente cristiana.
 
RAGIONAMENTI (NON MIEI) IN LIBERTÀ
- Parecchie persone si vantano di non perdere una messa, di compiere bene ogni dovere, di NON fare nulla di male e così pensano di guadagnare il paradiso.
- Non sembra tanto giusto che l'operaio il quale ha lavorato un'ora venga pagato quanto quello che ne ha lavorate dodici. Qualcuno aggiunge: non è lo sforzo che viene ricompensato, ma la fiducia nella giustizia dell'amore, che consiste nel donarsi a tutti pienamente. Dio si è già donato! Ma noi non dobbiamo stare con le mani in mano. Che cosa è necessario fare e non fare? Qual è veramente il punto?
- Risposta: tutto dipende dal nostro modo di guardare le cose, le persone. Di solito noi siamo il centro del mondo, ci facciamo un'immagine di noi come uno specchio e viviamo nell'incubo di non essere conformi allo specchio. Se invece, ci lasciamo guardare dall'amore di Dio, che vede il profondo del cuore (che noi non vediamo), facciamo l'esperienza di essere amati, perdonati, accolti così come siamo da chi ci ha fatti e che ci rende simili a lui. Lo specchio della perfezione, sognata con i nostri sforzi o dello sguardo altrui con il quale ci misuravamo, viene frantumato.
- Il punto di partenza è sentirsi amati, guardati da Dio. Questo sguardo sarà il motore di avviamento che toglierà il peso, la fatica, senza escludere il sacrificio: la mente corre all'amore di una mamma per il suo piccolo. Amore genera amore.
- Lasciamoci contagiare dalla bontà di Dio per correggere le visioni sbagliate che abbiamo. Non perdiamoci la gioia della consapevolezza che siamo in ottima compagnia, in compagnia di un amore che si dona senza misura. Cristo vive e opera in me, è più intimo a me di me stesso. Certo non mi posso vantare del bene che posso fare, ma neanche devo abbattermi per le mie povertà, perché sono amata così come sono, siamo amati da un Dio che ci rende buoni.
- A leggere la bibbia si scorge a ogni pagina questa caratteristica, questo stile di Dio: è sempre dalla parte dei poveri, di chi non ha difensore, di chi subisce ingiustizie, di chi è in fondo alla scala sociale.
- Non è che preferire gli ultimi sia l’unico modo per stare davvero bene tutti? Chi ci guadagna quando al mondo c’è qualcuno che sta male? Anche nelle realtà più concrete della nostra vita personale e sociale, non è forse vero che quando gli ultimi sono primi la vita è davvero migliore per tutti?
Tra me e me.
Ultimi e primi. E’ solo un proverbio, ripetuto, storicamente, in tante forme anche dialettali.
Mai penso che ci siano ultimi che diventano primi, e viceversa. O, almeno, non è un ragionamento che mi riguarda. Se sono ultima e divento prima,non  mi interessa altrettanto che se fossi prima che divento ultima. Io so che è cosa ottima crescere nell’amore. Non ho tempo da perdere con ciò che non conta. E’ un discorso troppo umano ed inutile. Voglio guardare a Lui, non a me; o meglio, voglio guardarmi con lo sguardo di Dio.

venerdì 15 settembre 2017

DOMENICA XXIV T.O. anno A


DOMENICA XXIV  T.O. anno A

Mt 18,21-35

In quel tempo, 21Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?. 22E Gesù gli rispose: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: Restituisci quello che devi!. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: Abbi pazienza con me e ti restituirò. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.

 

C o m m e n t o

1) NOTE INTRODUTTIVE

= Il condono gratuito delle colpe può trasformare l’individuo e renderlo capace di perdonare al fratello.

Perché questo perdono possa realizzarsi, ci va un lungo processo di trasformazione profonda fino ad acquisire un nuovo modo di pensare e una nuova mentalità, che facciano prevalere la misericordia sulla giustizia. La meta da raggiungere è riuscire a compiere l’azione più difficile: il perdono senza misura.

= All’interno della comunità l’amore fraterno è conseguente al riconoscimento che Dio esige unicamente l’accettazione del suo dono di Grazia nello stabilire rapporti armonici tra i fratelli

= L’espressione così anche il Padre mio celeste farà a voi deve essere intesa alla luce della parabola: l’amore/perdono che il discepolo riesce a manifestare a chi gli ha recato offesa è la risposta a quanto ha ricevuto dal Padre. L’amore all’altro è frutto dell’amore che agisce nel cuore di chi è stato attraversato dall’amore di Dio e riesce a donare ciò che ha ricevuto. Se questo amore è assente non può esserci una comunità fraterna.

 

2) ANALISI TESTUALE

21 Pietro aveva capito che dobbiamo disporre il cuore a perdonare coloro che ci offendono. Secondo lui, però, sarebbe opportuno stabilire un limite; perciò, con uno sforzo di generosità, prova a chiedere a Gesù se perdonare fino a sette volte potrebbe essere una buona regola. Probabilmente la proposta di Pietro rappresenta un certo limite a cui, nei casi migliori, può giungere la natura umana lasciata alle sue forze. Ma Gesù è venuto ad offrirci la possibilità di andare oltre i limiti naturali. Egli, infatti, risponde così a Pietro: Non ti dico [di perdonare] fino a sette, ma fino a settanta volte sette. Questa frase significa perdonare sempre; cosa possibile soltanto quando la grazia di Dio viene in soccorso alla debolezza umana.

22 L’insegnamento di Gesù richiama le parole di Lamech, vendicatore di Caino: chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte (Gen 4,15); parole che dimostrano come la reazione a catena della vendetta si opponga al perdono senza limite da parte del Signore.

Matteo spiega che l’accento non va posto sulla quantità numerica di volte in cui concedere il perdono, ma sulla qualità. Egli è l’evangelista che dedica più attenzione al tema del perdono di Dio a tutti gli esseri umani e di essi tra di loro. L’unica misura valida per il perdono è quella che Dio offre (70 volte 7), cioè, senza limiti né condizioni.

Gesù non predica la perfezione assoluta, ma una perfezione sempre più grande, sempre più aperta alle dimensioni dell’infinito.

23 Nella cultura orientale ogni persona che era dipendente del re, fosse un amministratore o un ufficiale, era chiamato servo, ministro. Dal contesto del racconto si vede che questo servo al quale viene prestata una cifra enorme, la massima immaginabile, era un satrapo, alto funzionario dell’impero persiano, chiamato a governare una parte del territorio del re e incaricato di riscuotere le tasse.

Importante, per la comprensione del racconto, è il fatto che l’iniziativa parta dal re: è costui a regolare i conti e/o a condonare il debito.

24 Per comprendere l’entità spropositata del debito, circa 300mila chili d’oro, occorre conoscere il valore del talento, la maggior unità monetaria in tutta l’area dell’Asia minore, che variava secondo luoghi e tempi.

25 L’ordine del re (che Matteo nel suo vangelo chiama Signore) non è dovuto a crudeltà; era conforme alla cultura dell’epoca, come si legge nel Secondo Libro dei Re: una donna, una delle mogli dei figli dei profeti, gridò a Eliseo: Mio marito, tuo servo, è morto; tu sai che il tuo servo temeva il Signore. Ora è venuto il creditore per prendersi come schiavi i miei due bambini. La disposizione di far vendere anche la moglie e ifigli -pratica vietata per i Giudei - indica che il racconto è situato in ambiente pagano. C’è da aggiungere che, anche se in alcuni testi biblici si narra che tale legge crudele colpiva moglie e figli, ai tempi di Gesù ciò non avveniva più.

26 Nella sua richiesta il funzionario non chiede perdono né tenta di giustificare il suo comportamento, ma si appella alla giustizia per cui i debiti debbono essere saldati. Ma la cifra da restituire era molto grande e la sua promessa di restituzione risultava del tutto illusoria. In preda alla disperazione egli chiede soltanto un rinvio: abbi pazienza!. Il verbo greco makrothuméò  letteralmente va tradotto ‘sii longanime con me’. Infatti non avrebbe avuto mai il tempo sufficiente per fare fruttare il danaro in modo da restituire la cifra dovuta.

27 Il funzionario aveva chiesto una dilazione del pagamento del debito, ma la bontà del suo signore, sorpassa la sua richiesta. Anche qui il termine in greco, splagchnìzomai, è molto espressivo e di matrice biblica. Il suo significato letterale è avere viscere di misericordia, modo figurato per rappresentare la divina Misericordia.

28 Nonostante il dono ricevuto, il funzionario non cambia il suo modo di vedere la realtà. Mentre la compassione del signore restituisce la vita al suo debitore, questo, roso dall’avidità, si attiene al senso di una giustizia rigida (più che rigorosa).

29-33 Il re aveva condonato il debito al suo funzionario, non per le sue ipotetiche quanto irrealizzabili promesse di pagamento, ma perché mosso a compassione; ed è questo l’atteggiamento che lui avrebbe dovuto avere a sua volta nei confronti del suo debitore.

L’uso in questa parabola dello stesso vocabolario usato nel Padre nostro unisce tematicamente la preghiera e la sua pratica. La mancanza del condono dei debiti e della concessione del perdono potrebbe minare l’esistenza della comunità, la quale implora il perdono, e unisce alla preghiera la promessa di concedere il perdono ai fratelli: rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo [ci impegniamo a perdonare] ai nostri debitori.

34 La sorte del secondo funzionario è la conferma del suo atteggiamento spietato: egli non aveva compreso che la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio.

35 L’insegnamento di Gesù, rivolto a tutta la comunità, si richiama alla letteratura sapienziale che prescrive: Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati (Siracide 28,2). Nello stesso libro del Siracide si mette in chiaro che il perdono umano è conseguenza di quello di Dio.

 

3) SULLE ORME DI GESÙ 

 

= Mettiamo a confronto le due frasi bibliche più importanti in questa pericope (entrambe hanno la loro radice in frasi analoghe dell’AT):

1) E Gesù gli rispose: Non ti dico [di perdonare] fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.;

2) Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio….

Non c’è chi non veda un netto contrasto tra i due atteggiamenti del Padre, così come li presenta la pericope di questa domenica; e c’è da chiedersi come essi (gli atteggiamenti) siano messi accanto, soprattutto in quanto contrastanti e riferiti allo stesso Padre. [Ma forse è da aggiungere che Matteo  scrive su un materiale che aveva attraversato più decenni e conseguenti rimaneggiamenti].

= Per capire, fermiamoci alla sostanza del discorso.

Mettiamo anzitutto a fuoco che la prima affermazione riguarda la MISERICORDIA, propria di Dio. La seconda affermazione riguarda la GIUSTIZIA, che utilizza un mezzo umano di misurazione; ed è chiaro che la durezza dei termini con i quali Gesù si sarebbe espresso è semplice proiezione di sentimenti umani.

= Il modo di ragionare umano secondo giustizia è quello che, in teologia morale, si chiama casistica. Questa si esprime in termini del si può oppure non si può; fino a dove si può, oppurefino a dove non si può.

Chi segue Gesù non può limitarsi ad accettare tale casistica; deve percorrere un’altra strada, non facile, ma possibile.

Gli studi del periodo a.C. avevano affrontato la questione, soprattutto attraverso grandi filosofi. Ne scegliamo uno, il più grande, destinato a far scuola nella storia della cultura. Si tratta di Aristotele.

E’ chiaro che, per leggere e comunicare il suo pensiero, dobbiamo fare delle semplificazioni.

Il Filosofo pone la questione mettendo a confronto due termini: il giusto e l’equo.

Il giusto concerne il dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, con una distribuzione dei beni in parti uguali. L’equo consiste nel retribuire la parte svantaggiata, per natura o per offesa ricevuta, in modo che gli venga dato un qualcosa in più di ciò che gli spetterebbe con una divisione in parti uguali. Spetta al giudice eguagliare con giudizio arbitrale, in modo che la disuguaglianza venga compensata dal dono: ex aequo et bono.

Si tratta di un concetto che la maggior parte della gente non solo fa fatica ad accettare, ma che spesso nega con forza. E il debito si riferisce non solo ai beni di ogni genere che Egli ci ha dato e di cui dobbiamo rendere conto a Dio, ma si riferisce soprattutto al nostro peccato, piccolo o grande che sia.

 

4) INFINE IL v.35 FA LUCE SU QUESTI RAGIONAMENTI

 = Il v.35 recita così: Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.

Nelle parole di Gesù non c’è l’affermazione che il discepolo debba ‘guadagnare’ il perdono da parte di Dio attraverso il perdono reciproco tra fratelli. Resta fermo che coloro che Dio ha perdonato, debbono a loro volta perdonarsi l’un l’altro.

= La parabola significa che un discepolo il quale non perdoni generosamente così com’è stato perdonato, di fatto dimostra di non avere mai saputo accettare il perdono da parte di Dio; di avere il carattere, più che del servo fedele, quello del profittatore.

Il discorso non verte su prestiti e debiti, ma riguarda il modo di guardare le cose dalla prospettiva di Dio.

= Nell’AT, in maniera prevalente, ci si figurava un Dio che aveva stabilito leggi e regole di comportamento, insieme a sanzioni per i trasgressori. Ma si leggono anche pagine e pagine lontane da tale concezione; colme dell’afflato di una spiritualità che anche oggi tocca il cuore di chi crede.

Inoltre Dio ha mandato sulla terra Gesù per trasmettere la stessa Torah, ma letta alla luce di ulteriori sviluppi, comunicati da Gesù ai suoi discepoli. E questi poco a poco hanno imparato a riconoscere in Dio il Padre di tutti, misericordioso e Amante del disperso, del povero, dell’abbandonato…

Il castigo è, per così dire, una extrema ratio per i malvagi che pensano solo ai propri interessi immediati e che ambiscono ad un potere a cui non hanno titolo. Giudicarli però tali e condannarli, è prerogativa di Dio soltanto. Dobbiamo essere miti e misericordiosi come Gesù, il nostro Maestro.

5) UN PENSIERO DI ERMES RONCHI

Quando non voglio perdonare (il perdono non è un istinto ma una decisione), quando di fronte a un’offesa riscuoto il mio debito con una contro-offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché annullare il debito, stringo un nuovo laccio, aggiungo una sbarra alla prigione.
Perdonare, invece, significa sciogliere questo nodo, significa lasciare andare, liberare dai tentacoli e dalle corde che ci annodano malignamente, credere nell’altro, guardare non al suo passato ma al suo futuro. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato, ma come un liberatore, fino a una misura che si prende gioco dei nostri numeri e della nostra logica.

venerdì 8 settembre 2017


DOMENICA XXIII T.O. anno A

Mt 18, 15-20

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 15 Se il tuo fratello commette colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai conquistato il tuo fratello; 16 se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17 Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. 18 In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo. 19 In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro.

 

C o m m e n t o

 

PREMESSA

= L’attenzione a cui Gesù richiama i suoi, nella pericope di questa domenica, verte sulla chiesa, e in particolare riguarda la correzione fraterna, propria soltanto di Matteo.

Si precisa la disciplina da seguire nel delicato ma vitale problema dei rapporti comunitari là dove l'ideale, il fervore primitivo sembra essersi abbassato.

= Nella pericope di oggi troviamo il quarto dei cinque grandi discorsi che caratterizzano il vangelo di Matteo. La sua versione circa la correzione fraterna sembra più esatta rispetto a quella di Marco e di Luca.

Il Nostro prende in considerazione la colpa, non tanto perché è una mancanza del singolo, quanto perché è pregiudizievole e nociva alla comunità: infatti il cattivo esempio potrebbe facilmente riverberarsi su essa. Siamo nel primo secolo, quando i discepoli ancora hanno bisogno di nutrirsi della verità predicata da Gesù e messa in pratica in un gruppo stabilizzato, ben organizzato, coeso, in grado di offrire ai suoi membri esempi viventi degli insegnamenti ricevuti. Il cattivo esempio è altamente nocivo in un gruppo ancora non stabilizzato. Quando questo capita, è necessario agire di conseguenza. E siccome espellere il colpevole sarebbe improprio, ci va prudenza e amore per produrre, sia nel cuore del colpevole sia in tutto il gruppo, effetti non laceranti, bensì educativi ed edificanti.

= Gesù non detta alcuna norma, ma vuole dilatare l’orizzonte umano per far entrare quello di Dio, poiché il Padre che è nei cieli ha lo sguardo rivolto alla terra.

= Molto interessante è il fatto che in questa pericope vengano costituiti pastori gli stessi discepoli. A loro viene affidato il compito di vigilare sui fratelli. Come dice Lévinas amare è prendersi cura del destino dell’altro; prendersi cura di ciò che l’altro può diventare; farlo crescere, liberarne le potenzialità nascoste. Da qui il senso della parola profetica: ti ho costituito sentinella.

= Non è facile capire il senso di questo affidamento. Non si è cristiani per migliorare se stessi; nessuno è chiamato a rendere conto a Dio soltanto del suo agire, senza che si assuma la responsabilità della salvezza degli altri. (Viene subito da chiedersi se i cristiani di oggi sentono questa responsabilità collettiva e personalizzata nello stesso tempo!).

= Nel Levitico si leggono parole davvero appropriate per giungere al cuore del colpevole; parole di monito e non di condanna: Non avrai nel tuo cuore odio verso il tuo fratello, ma dovrai correggere il tuo prossimo, e così non contrarrai, a causa sua, una colpa.

= E c’è una precisazione che vale più di mille dogmi: bisogna coltivare una spiritualità orizzontale e verticale; cioè volta al trascendente, e vissuta nell’immanenza.

1) Analisi

15. Matteo presenta Gesù che si richiama e amplia quanto era prescritto nel libro del Levitico (19,17-18): non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo così non ti caricherai di un altro peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore.

Il verbo utilizzato, hamartánō, devio, prendo una direzione sbagliata, lo troviamo tre volte.

Compito della persona offesa è quello di dimostrare al fratello l’errore compiuto per convincerlo, che il suo comportamento è sbagliato.

16. Se il primo tentativo di riavvicinare il fratello è senza risultato, poiché manca la disponibilità a  riconoscere il torto fatto, allora bisogna cercare l’aiuto di una o due persone della comunità. Si fa riferimento all’ordinamento del Deuteronomio (19,15), dove è prescritto: un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni.

L’una o due persone a cui si deve ricorrere non sono dei semplici testimoni da presentare davanti a un tribunale, ma gli stessi, tra i membri della comunità, che sono più adatti a convincere l’altro del suo sbaglio.

17. Il termine greco tradotto con comunità, chiesa, significa l’assemblea dei credenti raccolta per mettere a fuoco un accaduto spiacevole, come nel caso di chi cade in una colpa. Il conflitto tra i componenti deve essere portato a conoscenza di tutta la comunità soltanto dopo che siano stati esauriti tutti i tentativi di soluzione, da quello individuale a quello con i testimoni.

Chi si ritiene fratello, ma rifiuta di comportarsi come tale, impedendo il ricomporsi del dissidio, va considerato come il pagano e il pubblicano. Ciò non significa che viene escluso dall’amore della comunità, ma che è giusto, in un primo momento, porre al centro, anziché la comunità intera, solo l’offeso, il quale deve continuare ad amare chi l’ha offeso senza attendersi di ricevere nulla. Quando l’altra parte resiste all’amore, questo non potrà più essere vicendevole, e il colpevole va amato come si amano i nemici e si prega per loro.

18. A Cesarea di Filippo, quando Simon Pietro aveva riconosciuto Gesù come il Cristo (=Messia), il Figlio del Dio vivente, Gesù gli aveva detto: Ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli. Ora Gesù estende a tutti i discepoli quanto aveva prima attribuito ad un unico discepolo. E’ da ricordare che legare significa non perdonare  e sciogliere perdonare.

19-20. L’insegnamento viene collocato dopo l’assoluta esigenza del superamento dei conflitti comunitari. L’accordo o sinfonia alla quale Gesù invita non consiste nell’appiattimento delle varie personalità, ma deve somigliare ad una sinfonia, in cui ogni strumento deve suonare la stessa melodia pur conservando la sua indispensabile peculiarità. Si richiama il Talmud, dove si afferma che se due si riuniscono per studiare le parole della Torah, la Shekinà (=Gloria di Dio) è in mezzo a loro. Gesù si sostituisce alla Legge e la sua presenza manifesta la Gloria di Dio.

L’evangelista ha iniziato il suo vangelo con l’espressione Dio con noi riferita a Gesù, e termina con l’assicurazione di Gesù: io sono con voi tutti i giorni, sino al compimento del tempo. Si porta a compimento la promessa del Levitico (26,11-12): Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Dio assicura la sua presenza nella comunità attraverso Gesù, e la promessa non riguarda più il futuro. Gesù è una realtà presente che tutti possono sperimentare quando si vive in concordia: Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro (non già lì sarò).



2) Precisazioni

= In questa pagina del Vangelo di Matteo vengono riferiti alcuni loghia, ossia alcune parole o sentenze, così come furono autenticamente pronunciate da Gesù. Esse sono poste all’interno del discorso elaborato da Matteo sul modo di comportarsi dei cristiani in seno alla comunità. Per comprenderlo, questo discorso deve essere collegato alla frase conclusiva della sezione precedente, in cui si afferma: Dio non vuole che neppure uno di questi piccoli si perda.

= Il dato fondamentale che risulta da questi pochi versi è che il perdono reciproco tra le persone è anche perdono di Dio.

= L’intervento dell’autorità ecclesiastica per il perdono delle colpe si verificò relativamente presto, già nel secolo III. Ma storicamente si sa che sempre si è ammesso il perdono, concesso anche tramite la benedizione di un laico; un’abitudine che sopravvisse con sicurezza fino al secolo XVI. Ignazio di Loyola nella sua Autobiografia racconta che in una situazione di difficoltà si confessò con un soldato.

Non è stato documentato dogmaticamente che il prete debba assumere un incarico preciso ricevuto dall’Autorità ecclesiastica per esercitare la confessione auricolare dettagliata dei peccati. Si tratta dia una decisione disciplinare del concilio di Trento, basata su un argomento falso:; ma Gesù non ha concesso tale potere nemmeno ai suoi apostoli.



3) La correzione fraterna

Chi dirige la comunità, non può escludere nessuno, senza prima aver tentato ogni mezzo per correggere il fratello dal suo errore o dal suo peccato. Niente, infatti, è più delicato della correzione fraterna.

La prima regola data da Cristo per la conduzione della comunità è quella di lasciarsi guidare dalla preoccupazione di salvaguardare con ogni cura la dignità della persona del fratello. La comunione deve tentare di convertire il peccatore. E se il fratello persiste nell’errore, non sarà il giudizio della comunità in quanto tale, a condannarlo, bensì il fatto che lui stesso si autoesclude dall’assemblea dei credenti. Così avviene oggi nella scomunica pronunciata dalla Chiesa; essa non fa altro che constatare una separazione già avvenuta nel cuore e nel comportamento di un cristiano.

Il capitolo diciottesimo del vangelo di Matteo è tutto ispirato ad un’idea di fondo: la cura  e l’attenzione per i piccoli (che non sono i semplici, ma i peccatori). Matteo, infatti, inserisce qui la parabola della pecora smarrita, prendendo come esempio lo stesso Dio che va in cerca di chi ha sbagliato. Di fatto la comunità ha questo nome in quanto prolunga l’azione di Dio in seno ad essa.

= Quando il fratello ha un comportamento sbagliato, sono molto frequenti la mormorazione e il giudizio, che innescano meccanismi di esclusione (di scandalo, come vien detto nei versetti che precedono quelli di questa domenica). Qui si tratta davvero di legare, cioè di impedire che venga sperimentata la falsa libertà di giudicare arbitrariamente; e di sciogliere, cioè di restituisce la vera libertà nell’esercizio dell’amore verso Do e verso il prossimo.

= La frase decisiva del vangelo di oggi è infatti: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.  Il nome è la persona di Gesù. L’espressione riuniti nel suo nome indica che la sua persona, la sua via, la sua obbedienza al Padre e la sua carità diventano lo spazio nel quale vivono il discepolo e la comunità, così da prendere la stessa forma di Gesù, il suo modo di essere nel mondo, capaci quindi di prolungare la sua opera nella storia.

In contrasto c’è da riflettere che una Chiesa potente difficilmente sarà strumento di perdono; l’autorità di Gesù, che è venuto non a condannare ma a guarire, viene dal suo essere il Figlio obbediente fino alla morte di croce.

= Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male. La correzione fraterna è un atto per guarire il corpo della Chiesa. C’è un buco, lì, nel tessuto della Chiesa, che bisogna ricucire.

Solo chi ha assunto lo sguardo, i sentimenti, il pensiero di Gesù, può vedere l’altro nella verità, può discernere il suo male, la sua colpa, che non coincidono mai con la persona dell’altro. Chi ha commesso il male, è molto di più del peccato commesso; l’altro resta sempre una persona, e nessuna azione malvagia da lui compiuta può far dimenticare questo!

4) Dalle riflessioni di mons. Ravasi

Un aneddoto.

Un discepolo si era macchiato di una grave colpa. Tutti gli altri reagirono con durezza condannandolo. Il maestro, invece, taceva e non reagiva. Uno dei discepoli non seppe trattenersi e sbottò: Non si può far finta di niente dopo quello che è accaduto! Dio ci ha dato gli occhi! Il maestro, allora, replicò: Sì, è vero, ma ci ha dato anche le palpebre!.

= Siamo partiti da lontano, con questo apologo indiano, per commentare una delle frasi più celebri del Vangelo, dedicata alla falsa correzione fraterna.

Sappiamo, infatti, che lo stesso Gesù suggerisce di ammonire il fratello se commette una colpa contro di te. Ma è inesorabile contro gli ipocriti che correggono il prossimo per esaltare se stessi e, anche in questo caso, è difficile trovare una lezione più incisiva rispetto a quella che ci è offerta dalla parabola del fariseo e del pubblicano (Luca 18,9-14). In tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiali, ci imbattiamo in occhiuti e farisaici censori del prossimo, ai quali non sfugge la benché minima pagliuzza altrui, sdegnati forse perché la Chiesa è troppo misericordiosa e, a loro modo di vedere, troppo corriva.

Alcuni consacrati al servizio della verità e della giustizia si ergono altezzosi, convinti di essere investiti da Dio di una missione. In realtà, essi si crogiolano nel gusto sottilmente perverso di sparlare degli altri e si guardano bene dall’esaminare con lo stesso rigore la loro coscienza, inebriati come sono del compito di giudici. Ecco, allora, l’accusa netta di Gesù: Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello.

Purtroppo, dobbiamo tutti confessare che questo piacere perverso di spalancare gli occhi sulle colpe del prossimo è una tentazione insuperabile che ci lambisce spesso. Quel racconto indiano che abbiamo citato in apertura è accompagnato da un paio di versi di un celebre e sterminato poema epico indiano, il Mahabharata, i quali (versi) affermano: L’uomo giusto si addolora nel biasimare gli errori altrui, il malvagio invece ne gode. Bisogna riconoscere – come ribadiva l’umanista mantovano Baldesar Castiglione (1478-1529) nel suo trattato Il Cortegiano – che tutti di natura siamo pronti più a biasimare gli errori che a laudar le cose bene fatte.

Leggiamo, comunque, quel discorso di Gesù proposto dal Vangelo di Luca e riprendiamo un’altra frase che sia da suggello a questa riflessione sull’ipocrisia: Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso (6,36).

5) Conclusioni personali

Scoprire i segreti della Verità nascosta in ogni passo del vangelo non è un impegno da poco. Ma aggiungo subito: è un impegno da assolvere nella gioia. Senza questa, si spegne ciò che di più bello c’è nell’esperienza cristiana. Ache pro professare l’appartenenza alla chiesa, se si ha la sensazione di dover ubbidire ad una legge suprema, e di sentirsi deprivati della libertà? Conosciamo la riposta a questo quesito: la libertà consiste nello scegliere il bene. Con questa risposta, però, ci si impegola in tante altre domande legittime, come questa: ma cos’è il bene?

Il bene, a volte contrasta con la gioia. Anche l’amore talvolta contrasta con la gioia. Secondo il mio povero, ma vissuto parere, bisogna insegnare il metodo per saper cogliere i motivi di gioia in ogni situazione. Sono in molti a non saper gioire. Bisogna trovare motivi di gioia in ogni situazione. Si può. Alla condizione di togliere l’ombra che si allunga sulle cose e di guardare più in alto, alla fonte della luce…

Ma che c’entra questo con la correzione fraterna?

C’entra. La pesantezza del richiamo fatto al fratello/sorella dipende dall’addestramento alla gioia. Se siamo ‘leggeri dentro’, la leggerezza (che non è ingenuità di valutazione, ma metodo liberante) si comunica. E fin qui si tratta di fattori educativi. Il vero tatto comunicativo, dipende dalla nostra visione delle cose. Bisogna sfondare i limiti del ‘carattere nero’ e aiutare ad andare incontro alla luce.

Mi pare di non essermi saputa esprimere, ma a ragione. Perché le cose che contano vanno sempre oltre le parole e ci va una vita prima di saper convivere in letizia con tutti e di gioire con tutti.