sabato 24 settembre 2016


DOMENICA XXVI T.O. anno C

 

Lc 16,19-31
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: 19 «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20 Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21 bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22 Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. 23 Morì anche il ricco e fu sepolto. 23 Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24 Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 25 Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26 Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. 27 E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. 29 Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. 30 E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. 31 Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
 
Commento
 
Con tutta probabilità Luca, scrivendo questo tratto del suo vangelo, ha di fronte a sé l’ideale della comunità di cui parlano gli Atti degli Apostoli, fatta da credenti che attuano una comunione di vita in diversi ambiti, anche nella condivisione dei beni.
La liturgia di questa domenica approfondisce il tema caro all’evangelista del rapporto con la ricchezza, del qual si è letto la domenica scorsa: Gesù continua ad indicare ai discepoli l’orizzonte del Regno e a rivelare loro la chiave per accedervi. Applicando le beatitudini e i guai (Lc 6,24-25) alla parabola di oggi potremmo dire che Lazzaro è beato in quanto povero, affamato e afflitto da piaghe, perché suo è il regno di Dio; la sua fame sarà saziata ed egli sarà nella consolazione; mentre il ricco che nella vita terrena ha già ricevuto la sua consolazione conoscerà la fame, il dolore e il pianto.
Molto più tardi Pietro Crisologo (406–450), vescovo di Ravenna, attribuì al ricco l’apposizione di Epulone, solitamente riferita a sacerdoti pagani. Ma il ricco non ha un nome in questa pericope, a differenza del povero, Lazzaro, che significa ‘Dio aiuta’, ‘colui che Dio soccorre’. Difficilmente il lettore greco poteva cogliere il significato di questo nome ebraico; ma Luca fa capire ai suoi che il povero, a differenza del ricco, è riconosciuto per nome presso Dio.
= Il verbo stava alla sua porta, non rende il vero significato del verbo greco; la traduzione esatta pare sia questa: era stato gettato lì e lì giaceva. Il leccare dei cani non è un gesto di pietà, come sembra dal testo usato dalla liturgia che usa la congiunzione ma; invece con la congiunzione e la traduzione risulta: e come se non bastasse, anche i cani lo molestavano leccando le sue piaghe.
= Alla fine il ricco si trova nello Sheol o Ade, soggiorno dei morti. Tipiche le concezioni farisaiche riguardo alla morte e all’aldilà, anche se nella comunità lucana erano considerate una descrizione imprecisa dell’altro stato di vita (i termini teologici, dopo tante approssimazioni, saranno focalizzati nel medioevo).
Le rappresentazioni giudaiche dell’aldilà non sono uniformi; fanno parte delle rappresentazioni apocalittiche e popolari dell’epoca. Ci si può chiedere se, come luogo di tormento, l’Ade tenda ad identificarsi con la Geenna (secondo la tradizione giudaica luogo di destino eterno). Anche Abramo si trova nell’Ade, ma in un compartimento separato. Il paradiso, o zona dell’Ade con l’acqua fresca, era separato dalla parte dell’Ade corrispondente all’inferno, con le fiamme e con il supplizio della sete. Nel mezzo l’abisso. [E’ da tener presente che si tratta di raffigurazioni immaginifiche].
Il ricco conta sulla sua condizione di ebreo per ottenere il favore di avere un sorso d’acqua, ma l’essere della sua stirpe non gli giova a nulla: Abramo non può cambiare nulla, Dio stesso ha stabilito una inarrivabile distanza tra le due condizioni.
Quel che interessa a noi lettori è il concetto che affiora  in questa parabola: il destino di ognuno si gioca interamente in questa vita terrena: il ricco è andato all’inferno, non perché aveva molti beni, ma perché, vivendo una vita centrata su se stessa, non si è reso conto che accanto a lui un altro viveva nell’estrema miseria.
= Ad una semplice lettura, la parabola lascia più ambiguità di quante ne risolva. Anche la presentazione di Dio non è ideale. Egli non sa perdonare un ricco pentito! Luca forse vuole sottolineare le sue preoccupazioni pastorali e il suo pessimismo sulla condizione dei ricchi; e la sua narrazione non vuole contrapporre il destino del povero a quello del ricco per consolare i poveri, bensì indicare quale, secondo Dio, è la fine destinata ai ricchi senza occhi né cuore per i propri simili costretti ad una vita di stenti.
Ciò, però, non può giustificare quella che, a partire dal mondo pagano, è stata intesa come legge del contrappasso, secondo la quale la pena deve essere uguale e contraria al peccato.
[Mi permetto di aggiungere che questa concezione della punizione analoga alla colpa pare tutt’oggi radicata nella mentalità di molti. La cronaca ci mostra spesso, non solo il comprensibile dolore di chi ha perduto una persona cara, ma anche la loro acredine, l’odio e la voglia di vendetta contro chi l’ha uccisa. Si sentono frasi come buttarli in un carcere per sempre… La parola perdono è del tutto ignorata. Questa è davvero una trappola anticristiana].
= L’imbarazzo che provoca il testo ha fatto sì che alcuni autori vedessero nell’ultima parte una narrazione originale a sé stante. Alcuni studiosi sostengono che una parabola del genere non solo non può essere uscita dalla penna di Luca, ma meno ancora potrebbe essere uscita dalla bocca del Cristo, sia perché questi, nei vangeli, non ha mai negato a nessuno la speranza della conversione, tant'è che lo stesso Luca non ha scrupoli nel sostenere che persino Zaccheo, un capo degli agenti delle tasse, era disposto a seguire il messia in cammino verso Gerusalemme per l'ingresso trionfale, sia perché non è condannando la ricchezza in maniera così moralistica (chi ha goduto sulla terra soffrirà nei cieli) che si sarebbe potuta ottenere la giustizia sociale in Israele.
In definitiva, una parabola così dominata dalla logica del risentimento, può essere stata solo aggiunta al testo di Luca.
Peraltro, se accettiamo che Luca abbia scritto anche gli Atti degli apostoli, la suddetta parabola si presenta come la negazione della storia del più grande apostolo del Nuovo Testamento, Paolo di Tarso, convertito dalla religione ebraica.
 
= Cuore del racconto evangelico di oggi è la proclamazione di un Dio che si cura dei poveri e dei ricchi. E’ lieta notizia sapere che anche chi vive una vita dissoluta e chiusa nella propria superbia è oggetto dell’amore di Dio, avendo sempre l’opportunità di convertirsi all’Amore. Dio non vuole che nessuno sia perduto, ma che tutti siano salvi.
Si tratta di eliminare dalle nostre profondità ogni traccia del ricco epulone e acquisire un cuore capace di compassione e misericordia; un cuore solidale con chi è meno fortunato. Si tratta di divenire veri cristiani,chiamati a cambiare il mondo con la forza della fede e dell’Amore.
= Il v. 31 ci offre un altro spunto di riflessione. Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti. Tale risposta ricorda anche che la fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari. Abbiamo bisogno di incarnare la fede nella realtà di tutti i giorni. I facili entusiasmi per i miracoli o per una persona ‘santa’ diventano presto fanatismi, i quali sono… una vacanza che distoglie dalla noia del quotidiano, senza ch il cuore si converta profondamente.

 

 

sabato 17 settembre 2016


XXV DOMENICA T.O. anno C
 
Lc16.1-13
In quel tempo, Gesù 1 diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2 Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. 3 L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. 4 So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. 5 Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?” 6 Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. 7 Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. 8 Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 9 Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con il mammona dell’ingiustizia, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. 10 Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 11 Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12 E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? 13 Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».


Commento
 
Premessa Lo ripetiamo: i vangeli sono nati anonimi. I nomi comparvero soltanto nel II secolo quando fu fatta una selezione dei numerosi scritti neotestamentari, secondo tre criteri fondamentali: apostolicità, universalità, coerenza teologica e dottrinale. I vangeli dunque sono scritti pastorali, in cui la comunità testimonia la sua esperienza di fede in Gesù e trova in lui le risposte ai problemi del vivere quotidiano.
= Gesù nel capitolo precedente stava mangiando con i peccatori e si era messo a parlare con gli scribi e i farisei che lo criticavano. Ora il suo discorso è rivolto a un uditorio più vasto: Gesù diceva anche ai discepoli. Il contesto della parabola, nato attraverso la catechesi formativa della sua comunità, non è nuovo in Luca: il Regno a confronto con la ricchezza.
Intanto nella comunità cresceva la presenza di persone provenienti dal mondo pagano e nascevano nuove questioni da affrontare. Il problema che si ora profilava verteva sul come conciliare l'interesse per i beni terreni e il nuovo stato di vita del credente.
= Il racconto dell’amministratore astuto lascia perplessi non solo per le lodi che Gesù gli elargisce nonostante sia stato licenziato per incapacità o imbrogli amministrativi, ma soprattutto per il modo tronco con cui termina la parabola.
Ma le lodi non debbono trarci in inganno. Luca, infatti, si propone di accentrare l'attenzione del lettore, non sull'operato dell'amministratore chiaramente riprovevole, bensì sul suo dare corpo ad un progetto e all’impegno per attuarlo. Ed è proprio su questo che Luca vuole fare le sue raccomandazioni.
A quanto pare, la comunità è piuttosto proclive a disperdersi nelle faccende e negli affari quotidiani, dimenticandosi che, in quanto credente, deve tenere lo sguardo rivolto principalmente a Dio. Inoltre essa ha la sensazione di vivere negli ultimi tempi, quelli dell'escatologia, in cui il giudizio di Dio si sta compiendo e Luca sembra preoccupato di mettere le carte in tavola.
E’ da notare che l’evangelista usa il verbo “dissipare”, lo stesso identico che egli ha usato per descrivere il comportamento del figlio minore nella parabola del Figlio prodigo, associando in qualche modo tra loro i due comportamenti, probabilmente per colpire più a fondo lo stile di vita poco impegnato della sua comunità.
I vv.3-4 mostrano il rientrare in se stesso dell’amministratore, analogo a quello del figlio prodigo. Eppure nella parabola di oggi non vi è un lieto fine come nella precedente parabola; infatti non vi è la decisione, da parte dell’amministratore, di recarsi dal suo padrone per invocare il perdono. Lo vediamo attraverso la sentenza di condanna decisiva del padrone: non potrai più amministrare.
Il v.9 riporta il primo detto, il più vicino al senso della parabola e forse quello che meglio la interpreta e che potremmo definire, con un nostro modo di dire, come la morale della favola: Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con il mammona [māmōnā' è parola aramaica, il cui significato si avvicina molto al nostro ‘patrimonio’] dell’ingiustizia, perché, quando questo (il patrimonio) verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Come dire: la buona gestione delle cose materiali della vita terrena, spesa a favore degli altri costituisce la moneta utile per accedere alla vita eterna, che è la vita stessa di Dio. Il tempo presente, dunque, risulta essere decisivo per il nostro futuro di eternità.
I vv.10-12 sono una piccola pericope nella pericope, dal sapore sentenziale e sapienziale, che ha l'intento di costituire un parametro di raffronto per la comunità lucana: come sapere se una persona si comporta bene ed è gradita al Signore? Ebbene, dice il Gesù lucano, guardate come essa si comporta e come si muove nella quotidianità della vita, come gestisce i suoi beni terreni (la cosa minima), perché in ciò si rifletteranno anche le realtà superiori, quelle spirituali (la cosa grande).
I vv.11-12 costituiscono uno sviluppo riflessivo sul detto e ne sono la spiegazione. Infatti viene sciolto l'enigma di ciò che si intende per cosa minima e cosa grande; la minima corrisponde al mammona dell'ingiustizia, cioè ai beni materiali; mentre la grande corrisponde alla vera ricchezza, cioè le realtà di Dio, i beni spirituali.
Il v.13 riporta il terzo detto di Gesù, che pone la comunità lucana di fronte ad un aut-aut, il quale è radicale, non ammette vie di mezzo. La nuova fede a cui la comunità ha aderito, l'ha posta in una dimensione completamente nuova, molto impegnativa ed esigente, poiché è la dimensione stessa di Dio.
= il punto centrale di questa parabola sta nell’affermazione finale di Gesù: Non potete servire Dio e la ricchezza; cioè  l’accumulo di ricchezza disumanizza mentre allontana da Dio.
È evidente che Gesù non può dire due cose letteralmente contraddittorie, una dietro l’altra: prima  elogiare chi sa sistemare i conti per guadagnare denaro, e poi affermare che l’accumulo di denaro è ricchezza ingiusta. Allora l’interpretazione corretta è questa: l’astuzia che hanno i corrotti per rubare, dovete averla voi, miei discepoli, perché sempre siano evidenti la vostra onestà e la vostra generosità. Ma capita che a volte i cristiani dicano di credere nel Vangelo, e al tempo stesso, in alcune situazioni, invece di usare il  danaro per ‘farsi degli amici’, si fanno amici del denaro fino a diventarne servi; anziché servirsene lo servono. La ricchezza altera i criteri e i valori soprattutto nel rapportarsi con gli altri.
= L’insegnamento finale della pericope cammina su binari molto chiari. Pone nella bocca di Gesù questa raccomandazione: essere figli della luce non significa non impiegare al massimo le capacità di intelletto e di tornaconto personale. Quello che cambia rispetto ai figli delle tenebre è la trasparenza dell'essere e la scelta di un fine quale garanzia quotidiana di una vita che non si esaurisce nel frammento di tempo in cui fluisce, ma sconfina nell'infinità di Dio.
La fedeltà è cosa seria, e perciò va vissuta giorno per giorno. La fedeltà alla propria identità chiede di mettersi a servizio dell'umanità sempre, in cose di poco conto e in cose importanti. Allora sì che si vive come figli della luce.
La parabola inverte il pa­radigma economico su cui si basa la società contem­poranea: per essa è il mercato che detta legge e si propone u­na crescita infinita: più de­naro è bene, meno dena­ro è male. Se invece legge comune fossero la so­brietà e la solidarietà, la condivisione e la cura del creato, crescerebbe non l'accumulo ma l'amicizia e la vita buona.
E’ vero, questa è un’utopia. Ma guai a non avere nell’orizzonte della vita terrena ideali forti. Alla luce di essi, anche i piccoli passi possono pian piano farsi strada nelle coscienze e filtrare nella società.
= Alla fine lascio la parola ad un missionario, padre Diego delle Carbonare:
A me missionario non manca nulla: un tetto, tre pasti al giorno, acqua, corrente, medicine, macchina, telefono, ecc. Ma quanto avanti a me sono le mamme della nostra comunità cristiana, che si spaccano la schiena per mantenere i figli (magari anche da sole, se il marito non c’è più) e quando vengono in Chiesa fanno tremare le mura con i loro canti di gioia! sono loro le testimoni della buona novella. Io al massimo faccio l’assistente. E piano piano mi lascio convincere dal loro stile di vita che Gesù non abita nel portafoglio, ma nel cuore: nelle relazioni, negli incontri fatti di volti, nomi, storie, esperienze condivise. Spero proprio che questa quaresima sia un tempo in cui non apriamo solo il portafoglio, ma anche il cuore. Cominciando da quella persona che mendica davanti al portone della nostra indifferenza. 

sabato 10 settembre 2016

DOMENICA XXIV T.O. anno C


Lc 15.1-32
 
1 In quel tempo, si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3 Ed egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5 Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7 Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. 8 Oppure, quale donna, se ha dieci monete, e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». 11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre: "Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e davanti a te; 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato contro il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". 22 Ma il padre disse ai servi: "Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa. 25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: "Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo". 28 Egli si indignò e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31 Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"».
Commento
 
Premessa
Le tre parabole sono tanto note da non richiedere una spiegazione letterale o un commento omiletico.
Io mi propongo di mettere in ordine alcuni concetti e di mettere a punto qualche nota esegetica soltanto perché so di parlare a persone desiderose di apprendere in maniera alquanto approfondita e in vista di una crescita spirituale.
Bisogna interrogare il testo e sviscerare alcuni significati che non si possono affidare alla semplice lettura perché richiedono un’adeguata spiegazione (sapete che io per prima mi affido a chi sa molto più di me).
 
Le tre parabole della misericordia costituiscono un capitolo importante dell’intera opera lucana, tanto da costituire il vangelo nel vangelo. In esso ricorrono i temi tipici di Luca: la predilezione per i poveri e per i peccatori, la gioia della salvezza, il perdono.
Al centro della sezione del viaggio verso Gerusalemme Luca inserisce alcuni gruppi letterari provenienti, i primi due dalla fonte Q (dal tedesco quelle che si suppone sia stata utilizzata nella composizione dei  sinottici) e il terzo da altro materiale preesistente.
Formatosi alla scuola dell’AT, Gesù conosceva le antiche parabole e chissà quante volte le avrà sentite raccontare. L’evangelista unisce le tre parabole che troviamo nella pericope odierna, senza dubbio per la loro affinità, e vi premette un’introduzione redazionale in modo che costituiscano un tutto unitario.
Lo svolgimento dei fatti narrati è scandito in tre tempi, espressi con tre verbi: perdere, cercare ritrovare. Ed è questo il cammino che deve fare chi vuole trovare la via della propria liberazione spirituale.
= Note esplicative
Nella prima parabola è in primo piano l’immagine della pecora, che nell’AT ha una forte carica metaforica: il popolo è evocato dall’immagine del gregge guidato dal pastore, e questi simboleggia Dio. Nella nuova era, che già i primi cristiani vedevano inaugurata col Cristo, si dà a queste immagini un significato nuovo, cristologico. Ed è Luca che, dando forma letteraria alla rilettura degli antichi testi biblici, attribuisce a Gesù il significato di pastore della comunità; e questa è vista come rappresentativa del nuovo popolo di Dio, entro il quale è chiamato ad entrare l’umanità (ricordiamo che Luca non si allontana mai dalla visione universalistica = tutti, anche i pagani, sono chiamati alla  salvezza).
= Nella prima parabola il rapporto tra peccatori e giusti è di 1 a 99! L’uno per cento dell’umanità sarebbe peccatore; il restante 99 sarebbe fatto di giusti che non hanno bisogno di conversione… In verità quel 99 per cento ha un valore simbolico. Nella tradizione giudaica richiama gli angeli (si pensi ai 9 cori degli angeli). Quell’unica pecora perduta è l’umanità, rappresentata dall’uomo, Adamo, decaduto dalla primitiva innocenza. Ma il Dio del’AT ha lasciato i cori degli angeli a cantare la sua gloria, ed ha, prima promesso e poi mandato il Cristo, il Messia, a cercare l’umanità smarrita; si è messo la pecora sulle spalle e l’ha riportato alla casa del Padre.
= Nella seconda parabola c’è lo stesso senso della prima, attraverso l’immagine di una donna, una padrona di casa, che ha dieci monete (la parola dracma indica un tipo di moneta antica) e il rapporto tra salvati e dispersi è di 10 ad 1.
Come il pastore, come la donna, Dio non aspetta che l'essere umano dimostri il suo pentimento con digiuni e penitenze. Chi è desideroso di salvezza è invitato a capire e a imitare l'amore disinteressato di Gesù, che ha pagato per tutti; e deve imparare a vivere la fratellanza anche nelle piccole cose (la dracma era la moneta più piccola): il cuore deve convertirsi attraverso la condivisione, poiché a Dio non si giunge da soli. La dracma ritrovata fa vedere quanto è bello far partecipi gli altri della propria gioia nel ritrovamento dopo aver perduto.   
= La terza parabola dà ampliamento al tema delle prime due.
La richiesta del figlio, contestualizzata nella Palestina del tempo, è un fatto di per sé non eccezionale. Il figlio cadetto, per desiderio di indipendenza e/o per bisogno, era solito andarsene di casa. Ma qui il giovane uscito di casa si degrada ai massimi livelli. Consumato il gruzzolo a sua disposizione, si raccomanda ad un pagano custode di porci, animali immondi per antonomasia, cosicché è maledetto secondo la Legge. Con un tale comportamento egli perde davanti a suo padre ogni diritto.
Arrivato al fondo dell'indigenza, il prodigo rientra in sé. Il motivo che lo spinge a scrollarsi di dosso tanto degrado non è molto nobile: egli è mosso dalla fame e confronta la sua condizione con quella dei salariati di suo padre. Ma ritorna. E qui l'attenzione è rivolta a quello che compie il padre. Lo leggiamo in uno dei versetti più commoventi della Bibbia. Il padre vede il figlio da lontano perché lo aspettava sempre in cuor suo: Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Aver compassione (letteralmente “essere sconvolto fino alle viscere”) esprime il sentimento di Jahvè verso i poveri e di Gesù nei confronti dei bisognosi. Il padre si mette a correre: un comportamento per niente consono alla sua età e alla sua dignità; si getta al collo del figlio, impedendogli di umiliarsi e di gettarsi ai suoi piedi e lo bacia in segno di perdono (cfr 2 Sam 14,33) e di comunione, senza tener conto dello stato di impurità del figlio (certamente doveva sapere che egli veniva da un paese di pagani). Il comportamento è davvero sorprendente, se teniamo conto di un tempo in cui l’autorità del padre era indiscussa e l’effusione dei sentimenti era insolita.
Il racconto di Luca va al di là del semplice racconto. Ha lo scopo di sottolineare come la conversione, nel giudaismo sinonimo di penitenza, comportava digiuni ed elemosine, mentre per Gesù è essenzialmente motivo di quella gioia che scaturisce dall'incontro con un Dio che perdona.
Entra in scena un terzo personaggio, il figlio maggiore. L'ira dell'uomo fedele è una reazione logica: già l'Antico Testamento presenta la collera dei giusti provocata dal successo dei cattivi (Sal 37,7). Ma ora la situazione è cambiata: il perduto è tornato e il padre accoglie il peccatore: Luca vuol fare entrare i cristiani in questa nuova logica.
In tono di rimprovero e senza rispetto, il primogenito elenca i suoi meriti: la fedeltà (non ha mai trasgredito un comando), il servizio costante (il verbo doulein contiene l'idea di un lavorare da schiavo). Il genere di perfezione vissuta dal figlio maggiore gli impedisce di entrare nella logica del padre basata sull'amore gratuito. Lo scandalo che provoca l'amore per il figlio prodigo porta alla luce la gelosia e il rapporto inautentico che il figlio maggiore aveva nei confronti del proprio padre. Il padre gli ricorda che a livello giuridico egli è l'erede legittimo, ha già in mano la proprietà; ma vi sono anche altri legami, l'unità famigliare, l'amore fraterno... L'immagine della comunione permanente col padre che non si scioglie col peccato, dimostra che l'essenziale per il convertito è credere nella sicurezza di poter rientrare in qualsiasi caso nella comunione con il Padre. Protagonista della salvezza universale è il Padre. La prepara e la realizza in Gesù.
= La parabola del figliol prodigo è di un’attualità impressionante.
Queste pagine di vangelo sono la memoria della comunità lucana, di quello che ha udito, visto e sperimentato. Ma sono anche pagine profetiche. Preannunziano il metodo che la chiesa dovrà avere per guidare i credenti e gli aspiranti-credenti a trovare la fiducia nell’amore del Padre per tutti dopo ogni possibile caduta
Nella società contemporanea è eclissata la figura del padre. Molti psicologi e psicoanalisti attribuiscono a questa eclissi la causa di tante paure, angosce, depressioni, mancanza di coscienza di essere figli, insofferenza di essere bisognosi o dipendenti da qualcuno più forte…
L’eliminazione del padre ha giustificato l’eliminazione di Dio a tal punto ch il nostro mondo, orfano di Dio, si rifugia in un devozionalismo decadente.
= L’insegnamento di queste parabole
L'insegnamento consiste nel riconoscere il primato dell’amore di Dio, che è sempre più grande delle nostre debolezze.
La conversione e l’iniziativa del ritorno sono opera di Dio: all’uomo spetta solo di accogliere la Sua proposta di amore. Egli è il pastore che va in cerca della pecora smarrita e la salva. E’ la donna che mette a soqquadro la casa per ritrovare la dracma perduta. E’ il padre che si fa protagonista del ritorno del figlio senza che un inutile senso di rifiuto dopo la caduta lo coprano di vergogna: il figlio perduto è il figlio che il Padre abbraccia e bacia; il figlio per il cui ritrovamento si fa festa, in modo che la Sua gioia sia partecipata a tutti.
Non facciamo del cristianesimo la religione che conteggia osservanze e peccati.
Impariamo a vivere la fede nella gioia di sentire Dio vicino; nella sicurezza di amare e di essere amati da Lui.   

sabato 3 settembre 2016

DOMENICA XXIII T.O. anno C


DOMENICA XXIII T.O. anno C
 
Lc 14.25-33
 
In quel tempo, 25 molte folle si incamminavano con Lui, ed Egli, voltatosi, disse loro: 26 «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27 Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. 28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30 dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. 31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32 Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33 Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
 
Commento
 
Il cap.14 continua ad occupare le domeniche, nelle quali Luca fa vedere Gesù sempre in cammino verso Gerusalemme, luogo della sua fine sulla terra e della sua risurrezione.
Le folle che seguono Gesù sono i numerosi convertiti della Chiesa nascente e altri che Lo seguono occasionalmente.
Il distacco dalla famiglia.
Ci troviamo subito di fronte all’ammonimento più severo: seguire Lui significa fare un taglio netto rispetto alle persone che dovrebbero essere il primo oggetto dell’amore, e cioè i familiari; e in verità Gesù parlava spesso a favore di questo affetto, prescritto anche dalla Torah.
Ma questa volta le Sue parole sono dure e sconcertanti. Il verbo usato da Luca è miséo, il cui significato è chiaro e netto: odiare. D’altra parte l’origine della parola nasce nel terreno del mondo semitico, e coltivato nelle regole del Qumran.
Non mancano gli esegeti che vogliono attenuare il significato del verbo e traducono: preferire Gesù a…; e parlano più che di odio, di superamento della visione di una famiglia chiusa in se stessa, la quale potrebbe essere di ostacolo a rendersi liberi di donarsi totalmente alla sequela, da persone inserite nella nuova famiglia della comunità.
Gesù vuole proclamare la totalità della scelta, l’eliminazione di ogni compromesso. Utilizzando il verbo essere e non diventare (mio discepolo), per giunta al tempo presente, l'evangelista mostra di pensare non solo alla scelta iniziale con cui si diventa discepoli, ma al comportamento che deve caratterizzare tutta l'esistenza del cristiano: scegliere Cristo esige la prontezza a posporre i legami familiari e la propria vita, per essere veramente e durevolmente Suoi discepoli.
 
Portare la croce e seguire Gesù.
L'invito a prendere la croce è in diretta conseguenza di quanto affermato.
Nella tradizione post-pasquale i temi del seguire Gesù e del portare la croce sono stati interpretati alla luce della vicenda pasquale ed è per questo che Luca insiste sul valore permanente e quotidiano di tale realtà.
Ascoltiamo altri suggerimenti esegetici: Essere cristiani non è la decisione di un momento, ma la scelta di una vita. Non si tratta di voler essere perfetti,  ma di scegliere da che parte stare: con Dio, condividendo la Sua volontà, o con il mondo seguendo l'andazzo del mondo. Fare questa scelta non è sinonimo di perdere la libertà (“ho scelto così e ormai non c’è più via di scampo; debbo fare così”); è, al contrario, sinonimo di conquistare la libertà. Come? Approfondendo la scelta fatta e preferendola ad ogni altro allettamento, il vecchio uomo pian piano muore per risorgere con una mentalità e una visione di vita inesplorate. Essere liberi significa non essere condizionati, respirare un’altra atmosfera. Il confronto, per capire questo modo di vivere la libertà, ce lo dà lo sport: i muscoli con l’esercizio assiduo diventano capaci di fare l’impossibile, e alla fine… quale soddisfazione!
Non è chiaro in quale circostanza Gesù abbia pronunciato le parole dei vv.28-32. Potrebbero essere state un ripetuto avvertimento per coloro che spontaneamente e con entusiasmo si offrivano a seguirlo come discepoli in senso stretto, ma che, dopo l’ondata dell’euforia, non persistevano nel discepolato. Si trattava dunque di un avvertimento a valutare bene questa loro scelta. E, data la durezza del discorso, Gesù sembra perfino incoraggiare la rinunzia alla vocazione cristiana qualora non se ne sentissero all'altezza. Forse le folle, conquistate dalle Sue parole piene di passione, soprattutto affamate e assetate dei Suoi miracoli, avevano bisogno di ricevere una sferzata al messianismo idolatrico con cui si associavano ai veri discepoli.
 
Una terza  parabola
Rinunciare a tutto quello che si possiede e non riporre la propria sicurezza in quello che si ha, significa confidare soltanto nell’aiuto divino. Gesù vuole al Suo seguito soltanto persone libere. Infatti le tre condizioni per la sequela sono tutte scelte di libertà e per la libertà.
In fondo quest’ultima condizione è riassuntiva: Così chiunque di voi non rinuncia a….
Bisogna andare nel mondo senza alcuna sicurezza, portando sulle spalle, come Gesù, il destino degli emarginati e dei poveri. I mezzi umani sui quali si può contare sono del tutto insufficienti per intraprendere la costruzione del regno di Dio e per affrontare le difficoltà umanamente insuperabili che essa comporta. Ma la preghiera impetra l’aiuto di Dio perché possiamo rispondere alla Chiamata.
 
Una riflessione personale
 
A prima vista pare che le parole di Gesù siano rivolte a chi ha una vocazione speciale, per una chiamata elettiva. Ma, leggendo attentamente, vediamo che Gesù si rivolge a tutti quelli che scelgono di seguirlo, sia pure, in un primo momento, sotto l’onda dell’entusiasmo. Sta al singolo ‘chiamato’ approfondire la prima, immediata scelta, ed estenderla a tutti.
Da tempo i documenti ecclesiali, quando parlano di prescelti, hanno di mira la formazione dei cosiddetti consacrati. Soprattutto i ‘sacerdoti’ avrebbero un carisma particolare, un privilegio, un segno sacramentale indelebile.
Sarebbe assurdo voler affrontare l’argomento qui in margine. Ma è fondamentale leggere il vangelo per come e per il tempo in cui è stato scritto, e non guardando all’evoluzione successiva. E’ di tutto vantaggio, per chi legge il vangelo, sentirsi popolo di Dio, come la chiesa in seguito ha cercato di fare nei concili. Una sana laicità si impone perché tutti, proprio tutti, possiamo sentirci ugualmente chiamati.