sabato 26 maggio 2012

VII di Pasqua - PENTECOSTE


Una lettura ed un commento attraverso l’aiuto del mio amico Lorenzo Tommaselli, e attraverso il mio sentire-la-Pentecoste.

27 maggio 2012 - Domenica di Pentecoste

Giovanni 15, 26-27; 16,12-15
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”.
  
L’azione dello Spirito non consiste nel confortare, ma nel consolare, cioè nell’eliminazione radicale delle cause di sofferenza. L’azione di questo Spirito a favore di tutti i bisognosi di vita e non di quanti – pur ritenendosi investiti – si disinteressano di quelli che hanno più bisogno, renderà chiaro da che parte sta il Padre. In questo passo Gesù non parla di “suo Padre/il Padre mio” ma “del Padre”, perché la relazione con Dio come Padre sarà propria di ogni uomo che risponda alla sua chiamata. Lo Spirito, la forza di vita, è la salvezza che Gesù porta,
La comunità dei credenti è invitata a collocarsi dalla stessa parte in cui si colloca Gesù: i bisognosi di vita. La comunità realizza il disegno del Padre: dare vita all’uomo inviando Gesù, cui comunica pienamente il suo Spirito. Gesù lo comunica ai suoi perché essi continuino la sua opera.
Ciò che Gesù possiede in comune con il Padre è in primo luogo la gloria (l’amore) che questi gli ha comunicato (1,14), in altre parole l’amore leale e fedele (la gloria), lo Spirito (1,32; cfr. 17,10).
Tutto ciò non viene concepito come possesso statico, ma come rapporto dinamico con il Padre, comunicazione incessante e vicendevole, che fa sì che i due siano uno (10,30) e ne compenetra l’attività.

Atti 2,1-11
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano:«Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell' Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti,
Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di
Dio».

Nella Bibbia giudaica la Pentecoste era un’importante celebrazione religiosa di ringraziamento per il primo raccolto, una festa calcolata affinché coincidesse con la maturazione del grano (Es 23,16a; Lv 23,15-20). Era concepita perché fosse celebrata da tutti i popoli, non solo quello di Israele ma anche dagli stranieri (Dt 16,10-11). Poiché la sua data era calcolata contando sette settimane dalla Pasqua ebraica e rappresentava il giorno in cui era offerto il frutto del primo cereale dell’anno (cioè l’orzo che matura prima del grano; Lv 23,15), essa era comunemente conosciuta come la festa delle settimane (Es 34,22a; Nm 28,26; cfr. Dt 16,9-10). La Pentecoste perciò era strettamente legata alla Pasqua ebraica, non solo perché la sua data dipendeva dalla Pasqua, ma perché proprio in questa occasione ci si scambiava il frutto del raccolto.
L’occasione appropriata della Pentecoste per il dono dello Spirito Santo potrebbe derivare dal fatto che essa simboleggia il periodo in cui si raccolgono i primi frutti della nuova creazione scaturita dalla morte di Gesù, cioè i discepoli riempiti con lo Spirito ed emergenti come il centro del nuovo popolo di Dio.
Il parallelismo inoltre concorda col fatto che l’effusione dello Spirito durante la Pentecoste non rappresenta un avvenimento unico che non può più ripetersi ma è semplicemente il primo tra tanti altri: ad ogni stagione si può sperimentare la ricchezza del dono di Dio e della terra.
Sebbene Giovanni il Battista abbia proclamato che colui che verrà dopo di lui
battezzerà “con lo Spirito Santo e fuoco” (Lc 3,16), Gesù ha omesso qualsiasi
riferimento all’aspetto di punizione e di purificazione contenuti nel concetto del fuoco escatologico (cfr. Lc 3,9.17). Con tutto ciò Luca non può ignorare un legame tra il fuoco della profezia di Giovanni e il fuoco adesso rappresentato simbolicamente dallo Spirito, anche se il fuoco della Pentecoste non è simbolo di distruzione ma di vigore di vita. Il significato del simbolo del fuoco ora è chiarito: “e tutti furono colmati di Spirito Santo”, cioè, il gruppo dei discepoli nel suo insieme ed altri (cfr. 2,1).
Il paradigma delle Sacre Scritture per la scena della Pentecoste è complesso
poiché ci sono elementi tratti sia dalla rivelazione sul Sinai (Es 19-24) sia dalla storia di Babele (Gen 11,1-9). Le tradizioni giudaiche, relative all’episodio sul Sinai, spiegavano che tutta l’umanità era presente quando Dio rivelò la Torah e che, sebbene la sua voce si fosse divisa in lingue differenti in modo che tutte le nazioni potessero capire le sue parole, Israele era l’unico popolo pronto per accettare il dono divino. Adesso quando lo Spirito è donato nella nuova rivelazione di Dio, Israele sarà il popolo che lo rifiuterà: è questo un capovolgimento ironico dell’antica posizione giudaica di superiorità. Così Luca, introducendo nella sua narrazione l’intera umanità, sta mettendo insieme dettagli delle tradizioni del Sinai e sta rendendo attuale la storia dell’Esodo.
La storia di Babele è utilizzata da Luca come paradigma. Nel racconto lucano, il riferimento ai popoli “da ogni nazione sotto al cielo” che vivono a Gerusalemme richiama il tema dei popoli provenienti da tutta la terra che si stabilirono a Sennaar dove si costruiva la torre che avrebbe raggiunto il cielo (Gen 11,1-2). È probabile che nella tradizione giudaica la storia di Babele fosse già collegata con la storia del Sinai prima che Luca le utilizzasse in rapporto l’una all’altra; l’effetto prodotto dal loro utilizzo come struttura portante della rivelazione della Pentecoste è quello di insistere molto sulla natura universale del dono divino dello Spirito Santo. Invece della confusione di linguaggio che porta alla dispersione e alla discordia, qui la molteplicità dei linguaggi rende capaci di comprensione ed è fonte di unità delle persone. L’umanità può recuperare la capacità di capire in lingue diverse l’unico linguaggio dello Spirito, ristabilendo l’unità della creazione attraverso l’apertura allo Spirito.

Il mio sentire-la-Pentecoste
Mi guardo attorno. Vedo i cristiani lontani dal “sentire” la Pentecoste, immersi come siamo nel caos della Babele, che sempre insidia l’enegia vitale della Spirito.
Eppure quanto bisogno c’è OGGI della Parola vivificante di Dio!
Vorrei dire al mondo intero ed a ciascuno: leggiamo tutto ponendoci in posizione di distacco rispetto ad una lettura unicamente terrena dei fatti. Ravviviamo la nostra fede. Lasciamo agire la forza del trascendente nel profondo del nostro cuore. Aiutiamoci tutti nella ricerca del collante dell’unità nella ricostruzione del Bene comune dentro ed attorno a noi. Dal caos non si esce senza lo Spirito di Dio. Ausilia  

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