venerdì 8 marzo 2013

La parabola del Padre benevolente


10 marzo 2013 IV DOMENICA DI QUARESIMA Anno C
Giosuè 5, 9a.10-12; 2Corinzi 10, 5-17-21
Luca 15, 1-3.11-32
1 In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: ‘Costui accoglie i peccatori e mangia con loro’. 3 Ed egli disse loro questa parabola: 11 “Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre: "Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: ‘Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e davanti a te; 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati’. 20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio’. 22 Ma il padre disse ai servi: ‘Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’. E cominciarono a far festa. 25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: ‘Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo’. 28 Egli si indignò e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: ‘Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso’. 31 Gli rispose il padre: ‘Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’”.
la parabola di oggi
La parabola di oggi non si discosta dal tema presente nel brano della domenica precedente: L’AMORE INCONDIZIONATO DEL DIO BENEVOLENTE. L’impronta creativa del redattore conferisce al testo un colore quanto mai suggestivo, che certamente invita a farne tesoro per la propria vita; ma non è questo di cui qui parleremo [bisogna fare delle scelte di campo].
Il contesto in cui è inserita è ritagliato sull’ottica offerta dalle chiese proto-cristane, a cui il redattore attinge. Tale ottica merita rispetto, ma l’idea biblica del Padre benevolente non è unica nella storia.
Attraverso un criterio esegetico dilatato a tutto l’orizzonte culturale e religioso ci si accorge che tale idea è universale: infatti la storia umana, pur seguendo cammini mai univoci, è contrassegnata da un quid inequivocabile, che si pone oltre la storia.
La rinunzia ad analizzare la parabola attraverso i soliti parametri è, più che una rinunzia, una preziosa possibilità di ascolto della Parola fuori dalle prigionie che incatenano le parole umane nel significato che esse hanno assunto nei vari tempi e luoghi. Tale pista apre un varco privilegiato all’ascolto della vera Parola, nascosta dietro le parole umane.
Il termine benevolenza divina nella Bibbia
Tutta la storia della salvezza biblica non fa che dimostrare che la benevolenza divina prevale sempre sull’infedeltà umana. E’ espressa in un linguaggio che induce a risalire dal linguaggio biblico ai molteplici linguaggi risalenti alle relative culture.
Per testimoniare il confluire nel linguaggio biblico di altri linguaggi, a partire da quelli primordiali, esemplifichiamo attraverso due termini:  rehamîm e hesed. Il primo allude al gioco divino-umano che si consuma al di dentro del cuore umano attraverso i legami generazionali; il secondo all’esperienza del trionfo della fedeltà divina.
Risalire ai linguaggi extra-bibici [sulla traccia indicata dal “Nuovo dizionario di teologia biblica, Cinisello Balsamo”], può essere di aiuto a liberarsi dai soliti schemi attraverso i quali è letto comunemente il vangelo. E tale liberazione può indurre a quella delle coscienze di coloro che non intendono consegnarsi alla pigrizia di un ascolto manipolato (anche se in buona fede).
I linguaggi extra-biblici
[C’è da premettere che i riferimenti qui offerti non possono che essere sommari]
LE RELIGIONI NATURALI risalgono a tempi in cui gli uomini avevano una coscienza mitologica, profondamente diversa dall’attuale, di tipo intellettuale; tempi che sopravvivono ancor oggi in alcune zone geografiche. Dalla coscienza primitiva derivano tradizioni, che fanno capo ad esseri fantasiosi come quelli delle fiabe, di entità mitiche legate alla stirpe, di tutto quel mondo incantato legato ad una percezione della realtà nutrita di immaginazione. E’ vero che come fenomeno sociale la coscienza primitiva si può considerare sparita a partire dal 500 a.C., in concomitanza con la crescente diffusione della scrittura e della lettura a scapito della tradizione orale. Ma gli schemi fantagmatici legati a percezioni pre-intellettuali, persistono nell’inconscio anche nella nuova cultura e ciò sarebbe un bene se funzionassero in modo utile, in ordine all’alimentazione della capacità creativa; ma spesso il funzionamento è deviante, come testimoniano i fanatismi di oggi (è raccapricciante osservare le folle fanatizzate attorno a personaggi talvolta discutibili). C’è da augurarsi un recupero positivo del materiale atavico depositato nella parte sinistra del cervello. Altrimenti anche la fede diverrebbe preda di una razionalità troppo lucida per essere concreta e vitale. 
LA RELIGIONE DI ZARATUSTRA, la cui forma originaria risale a prima del diluvio, circa 3500 anni prima di Cristo, è presente ancor oggi presso i Parsi e nel loro testo sacro, lo Zend Avesta. Ricercatori di questa religione in India hanno rivelato che essa fosse più antica di quanto ritenevano i ricercatori occidentali. Le lotte cosmiche tra il buio e le tenebre, che costituiscono il binomio sul quale l’essere umano si dibatte, cercando di trovare il filo di Arianna per uscire dalla lacerazione senza via di uscita, cedettero il passo a forme di cultura razionalistica, quando confluirono nelle dottrine gnostiche e in quella ispirata all’idea di un Dio personale, chiamato Ahura Mazda (posto al di sopra delle forze contrapposte del bene e del male).
Naturalmente anche in questa religione alcuni aspetti della profondità spirituale degli inizi è andata smarrita, come avviene in tutte le altre religioni; ma ci auguriamo che il nucleo di verità non sia del tutto perduto.
GLI INSEGNAMENTI DEL BUDDA hanno fondamento nel desiderio umano di comprendere il senso esteriore ed interiore attraverso la meditazione (ecc.), che dovrebbe sfociare poi nella condizione del nirvana. Budda stesso premetteva alla narrazione delle sue esperienze più elevate, questa frase: “dopo aver completamente eliminato sia il percepire che il non percepire, l’annullamento della percezione e del sentire…”. Il significato di questa premessa può servire da metodo per un’esperienza di Dio in grado di passare da ciò che non si manifesta esteriormente a ciò che si fa presente interiormente. Tra i buddisti stessi c’è la convinzione che nel Buddismo non ci sia un dio (ma Budda non ha mai sostenuto tale assunto), bensì una via che introduce al Tutto-Verità, a prescindere dal ricorso a capacità terrene di tipo psichico e mentale.
L’EMBLEMA ILDEGARDA - Nel 1098, anno che precede la conquista di Gerusalemme da parte dei primi crociati, nacque nella regione dell'Assia Renana, nei pressi di Magonza, Ildegarda, decima e ultima figlia del nobile Ildelberto di Bermersheim e di sua moglie Matilda (il nome Ildegarda significa protettrice delle battaglie). La sua natura di visionaria comparve molto presto, e fu indirizzata dai genitori alla clausura presso un monastero benedettino, dove lei ebbe modo di attingere alle arti liberali che facevano parte del patrimonio culturale dei monaci di quel tempo. Giunta all'adolescenza, pronunciò i voti dell'ordine benedettino e lentamente maturò l'idea di fondare lei stessa un nuovo convento, dato che le vicende del tempo le fecero constatare la sua distanza dalla mentalità del tempo, influenzata pesantemente dalle più alte cariche istituzionali, religiose e laiche.
Per entrare nel punto nevralgico del senso da lei dato alla sua chiamata all’interiorità, ecco una breve citazione tratta dalla sua predica, tenuta il giorno di Pentecoste a Treviri: "Io povera creatura, a cui mancano salute, vigore, forza e istruzione, ho udito nella luce misteriosa del vero volto le seguenti parole per il clero di Treviri: i doctores e magistri non vogliono più dar fiato alla tromba della giustizia, perciò e scomparsa in loro l'aurora delle opere buone: se non espiate i vostri peccati, dai nemici verrà alla città un castigo di fuoco". Ciò dimostra la sua decisione e durezza contro ogni tipo di corruzione intellettuale e morale dei ‘grandi’; la pagò attraverso dure prove, che la facevano sospirare: "Vorrei essere liberata e stare vicino a Cristo".
Finché la morte non le permise di intonare, per un ultimo desiderio, i suoi canti nuziali (la produzione musicale permea la sua vastissima cultura). L'affettuosa tenerezza di cui la circondarono le monache del convento, sue compagne di viaggio, è un invito, per noi del tempo presente, a preservare le tracce storiche da lei lasciate dalla retorica delle esaltazioni, le quali costituiscono un’insidia alla verità della sua testimonianza. Ildegarda non è nemmeno da ringraziare per tutte le manifestazioni del suo genio femminile…. (vedi Giovanni Paolo II in Mulieris dignitatem); è anzi da liberare dall’aureola che lei certamente avrebbe rifiutata in vita. La sua presenza nella storia è da collocare tra quelle che introducono Parole di vita in mezzo alle righe storte (per dirla con M. Teresa di Calcutta, ahimè, anche lei aureolata dall’istituzione!) dei linguaggi umani.
breve preghiera
GRAZIE, O PADRE CHE SEI NEI CIELI, PER AVER PARLATO A TUTTI I PROFETI CHE CI AIUTANO NELLA RICERCA DELLA TUA BENEVOLENZA PERENNE ED ESEMPLARE NELLA STORIA. GRAZIE, IN PARTICOLARE, PER IL GESÙ DI NAZARETH CHE HAI FATTO TUO MESSIA E NOSTRA VIA ALLA VERITA’.

6 commenti:

Caterina Cattai ha detto...

ho molto da pensare, ma sento di dire subito grazie grazie grazie

Maria Grazia Sollima ha detto...

non ho mai letto un commento simile....io credevo che le cose fossero successe come sono raccontate... e poi pensare che la parabola ha un carattere universale nemmeno lo sognavo, mi pareva che queste cose le aveva detto solo Gesù........ come vedi, leggo con attenzione

Rosa Maria ha detto...

rosamaria@hotmail.it
e non sarebbe meglio non complicarci la vita? io il vangelo lo leggo come posso e capisco la mia ignoranza ma non me l'anno insegnato e ora non posso recuperare,,, ma mandami i commenti ti prego

Giulia ha detto...

giuliabompaci@alice.it
Vorrei sapere se la parabola è di Gesù o del redattore dietro ispirazione dell prime comunità cristiane. Non l'ha pronunziata così Gesù? Prego, una risposta giulia

Silvana Cabrini ha detto...


Silvana Cabrini [silvycab@gmail.com]
Le riflessioni e citazioni mi ricordano una lettera che Simone Weil a padre J-M.Perrin nel 1942: "E' proprio nella sventura che risplende la misericordia di Dio; nel profondo, nel centro della sua inconsolabile amarezza. Se perseverando nell'amore si cade fino al punto in cui l'anima non può più trattenere il grido: -Mio Dio, perchè mi hai abbandonato?- se si rimane in quel punto senza cessare di amare, si finisce per toccare qualcosa che non è più la sventura, che non è la gioia, ma è l'essenza centrale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, cioè l'amore stesso di Dio".

Gianna Glionna ha detto...

gianna glionna [giannaglionna@yahoo.it]
René Girard, Simone Weil (“Prima di essere una teoria su Dio, una teologia, i Vangeli sono una teoria sull'uomo, un'antropologia”), ma soprattutto questo commento domenicale, mi stanno avvicinando finalmente ai Vangeli. La parabola di oggi, sulla benevolenza di un Dio nel quale non credo, non mi ha interessata se non nella misura della descrizione del male che mi affligge. A me occorre sapere come guarire, completamente, dalla malattia dell’anima che affligge il fratello del figliol prodigo.