IL BUON PASTORE DA’ LA PROPRIA VITA PER LE PECORE
Gv
10,11‐18
[In
quel tempo, Gesù disse:] «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la
propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le
pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e
il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa
delle pecore.
Io
sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così
come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo
guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo
pastore.
Per
questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere
di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Commento al
Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
L’immagine di Gesù come Buon Pastore è indubbiamente
quella più conosciuta e più amata dai cristiani, una immagine carica di tanti,
tanti significati. Eppure è strano che, quando Gesù si presenta come tale, come
Buon Pastore, i capi giudei si arrabbiano con lui, lo ritengono un pazzo e alla
fine cercheranno di lapidarlo.
Siamo noi che abbiamo capito tutto di questa immagine o
sono stati i giudei che hanno capito e l’hanno rifiutata?
Vediamo cosa ci dice l’evangelista Giovanni. Anzitutto
Gesù si presenta rivendicando la pienezza della condizione divina. Quando nel
Vangelo di Giovanni Gesù afferma “Io sono”,
questo rappresenta il nome divino. Quando Mosè nel famoso episodio del roveto ardente
chiese a quell’entità che si manifestava, il nome, Dio non rispose dando il
nome, perché il nome delimita una realtà, ma rispose dando un’attività che lo
rende riconoscibile. Rispose “Io sono colui che sono”. E la tradizione ebraica
ha sempre interpretato
questa espressione, questa risposta del Signore come colui che è sempre vicino al
suo popolo. Al tempo di Gesù, quindi, con l’espressione “Io sono” si
indicava Dio.
Allora Gesù
rivendica la condizione divina. E afferma: “Io sono” – non “il Buon
Pastore” – ma “il Pastore Buono”. Qual è la
differenza? L’evangelista non sta parlando della bontà di Gesù; quando
l’evangelista si deve riferire alla bontà di Gesù, adopera l’aggettivo greco
“agahtós”, da cui il nome Agata, che significa ‘buona’. Qui, invece Gesù,
dichiara che lui è il Pastore, ed usa l’aggettivo greco “kalòs”, da cui
calligrafia, bella scrittura, che significa ‘il bello’, che significa ‘il
vero’. Quindi Gesù non sta indicando la sua bontà, ma sta indicando qualcosa di
diverso, qualcosa di più importante.
Cosa significa il Pastore Vero? C’era stata una profezia nel Libro di Ezechiele, al cap. 34, dove il
Signore rimproverava i pastori del popolo, perché, anziché prendersi cura del
gregge, pensavano soltanto a loro stessi. E allora, li minaccia il Signore, “verrà
un tempo in cui io stesso mi prenderò cura del mio gregge”. Quindi il
Signore sarà l’unico vero pastore del popolo. Ebbene, dichiara Gesù, questo
momento è arrivato. Ecco perché questo suscita le ire dei capi religiosi,
perché si sentono spodestati da Gesù, che li chiama ladri, si sono impadroniti
di ciò che non è loro, il gregge, e omicidi. Allora, il Pastore, quello vero,
quello ‘per eccellenza’ è identificato da Gesù nella sua persona. E qual è la
caratteristica che lo rende riconoscibile come il Pastore Vero? Dice Gesù che “dà la vita per le pecore”.
Allora qui Gesù supera la profezia di Ezechiele. Mentre per il Profeta
Ezechiele il pastore proteggeva, si prendeva cura del suo gregge, con Gesù il
pastore arriva al punto di dare la vita per le sue pecore, quindi si supera.
Poi Gesù paragona la figura del pastore a quello che non considera come un
cattivo pastore, ma un mercenario. Chi è il mercenario? Il mercenario è colui
che agisce per proprio tornaconto.
L’evangelista ‐ lo ricordiamo sempre ‐ in queste pagine non entra in polemica con un mondo, quello ebraico,
dal quale la comunità cristiana si è ormai irrimediabilmente separata,
distaccata, ma è un monito per la comunità cristiana affinché non ripeta gli
stessi errori. Quindi nella comunità cristiana, a chi agisce
esclusivamente per il proprio interesse, per il proprio tornaconto, per il
proprio prestigio, Gesù non riconosce nessun titolo, nessuna carica, se non quella
di essere il mercenario.
Questa espressione
“Io Sono” viene ripetuta in questo brano, per ben tre volte – il numero tre,
secondo la simbologia ebraica, significava ciò che è completo. Quindi Gesù
rivendica la pienezza della condizione divina e il suo essere Pastore. Perché
Gesù può affermare di essere Pastore? Perché lui è l’Agnello. Solo chi è
disposto a dare la vita per gli altri, questi può essere il Pastore del gregge.
E, dichiara Gesù, che lui “conosce le sue
pecore e le sue pecore conoscono lui”. Qual è il significato di questa espressione? C‘è una comunicazione
intima, crescente, traboccante d’amore tra Gesù e il suo gregge, cioè tra Gesù
e i suoi discepoli, i credenti, che è simile – dice Gesù – a quella del Padre
con lui. “Così come il Padre conosce me, io conosco
il Padre e do la mia vita per le pecore”
C’è una dinamica di un amore ricevuto da Dio, che si trasforma in
amore comunicato agli altri. Più questa misura di amore ricevuto e comunicato è
crescente, più si arriva a realizzare un’unica realtà di un Dio che non assorbe
le energie degli uomini ma che comunica loro le sue, un Dio che si vuol fondere
con l’uomo per dilatarne l’esistenza e farne l’unico vero santuario. Infatti,
dichiarerà Gesù tra poco, “E altre pecore che non provengono da questo
recinto… “. Gesù è venuto a liberare le persone. Cos’è il recinto? Il recinto è qualcosa che ti dà sicurezza, però ti toglie la
libertà. Allora Gesù dichiara che lui è venuto a portare un processo di liberazione crescente per l’umanità che non
riguarda soltanto le persone che sono rinchiuse nel recinto della religione, ma
in tutti quei recinti che impediscono la libertà. Allora afferma Gesù “Ho
altre pecore che non provengono da questo recinto, ‐ lui è venuto a
liberare le pecore dal recinto dell’istituzione giudaica – “anche quelle io
devo guidare”. Il verbo ‘dovere’ è un verbo tecnico adoperato dagli
evangelisti che indica il compimento della volontà divina. Quindi è volontà di Dio
un processo di liberazione.
La religione ha un fascino perché ti dà sicurezza, però ti toglie la
libertà. Ti dà sicurezza perché quando entri nell’ambito della religione devi
soltanto obbedire, devi soltanto osservare, ma questo ti mantiene in una
condizione infantile, di immaturità; invece Gesù vuole portare la persona alla
piena maturità, alla piena crescita. “Ascolteranno la mia voce”, la voce
del Signore non si impone mai, ma si propone. Come si fa a distinguere la voce
del Signore? Mentre le autorità religiose, siccome sono le prime a non credere
nel loro messaggio, lo devono imporre, a Gesù, che è cosciente che il suo messaggio
è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che
ogni persona si porta dentro, basta offrirlo, e le pecore, il gregge, i
credenti, questo lo capiscono. “E diventeranno un gregge e un pastore”
In passato, per un errore proprio di traduzione, per aver confuso il
termine ‘recinto’ con ‘gregge’, probabilmente ad opera di Girolamo, la
traduzione latina era “e saranno un solo ovile e un solo pastore” (et
fiet unum ovile et unus pastor). Di qui la pretesa della Chiesa per secoli,
per tanti e tanti secoli, fino al Concilio Vaticano II, di essere l’unico ovile
nel quale c’era la salvezza. Da qui lo slogan ‘fuori dalla Chiesa non c’è
salvezza’. Gesù non è venuto a togliere le persone e le pecore dall’ovile,
Israele, per rinchiuderle in un altro recinto più sacro, più bello. No! Gesù è
venuto a dare la piena libertà: e diventeranno un gregge, un Pastore. Cosa
vuol dire Gesù? L’unico vero santuario nel quale d’ora in poi si manifesterà la
grandezza e lo splendore dell’amore di Dio, sarà Gesù e la sua comunità. Mentre
nell’antico santuario le persone dovevano andare ‐ e molte ne erano escluse ‐ nel nuovo santuario, è il santuario stesso che andrà in cerca degli
esclusi dalla religione.
Prego: A l d i l à d e l p a t e t i c o!
Nota personale
Certe frasi di A. Maggi talvolta si lasciano equivocare; ad esempio
quando afferma: “La religione ha un fascino perché ti dà sicurezza, però ti
toglie la libertà”.
Dobbiamo stare attenti a non ritenere il superamento delle
ristrettezze della religione in antitesi con l’autentico rapporto personale e
collettivo con Dio. NO: La religione è di aiuto nell’offrire mezzi (soprattutto
sacramentali) di autentico spirito religioso. Ed è facile capire che senza le
strutture ecclesiali sarebbe difficile per molti credenti trovare punti di
riferimento concreti per vivere la comunione con i fratelli e con Dio.
Se ci sbarazziamo di tali equivoci, riusciremo ad apprezzare il
bellissimo commento di Maggi ed a riceverne molta luce. Ausilia
3 commenti:
A prima vista mi appare molto bella la riflessione di Maggi, ma appena giro il capo e rifletto per conto mio mi sorgono dubbi...
"La relgione ti toglie la libertà, ti chiude in un recinto"? Ma anche fuori del recinto perdi qualcosa della stessa libertà perché è sempre un darsi al qualcuno, al qualcosa...
Di quale libertà parliamo, se vogliamo farla derivare dalla parabola de vero pastore? Secondo me, si dovrebbe parlare di quella libertà che può essere tutta se stessa sia nel recinto sia fuori del recinto.
Secondo la libertà sottintesa nel commento, essa si realizza anche quando aderiamo totalmente a Dio, a Cristo, alla verità: ci si consegna, si rinuncia, ci si vende... Ne deriva che la "verità schiavizza!" E avrebbero ragione quelli che accusano i cristiani di pretendere di annunciare una verità bella e fatta... che poi imprigiona la mente!
No! La libertà, quella supposta nel racconto evangelico, si trova tutta sia nel recinto si fuori di esso...
Gesù ha altre pecore sue che praticamente sono già in quel recinto-ovile-libertà o si avviano ad entrarvi.
Un Gesù che mi rinserra nel recinto mentre va a dare maggiore libertà ad altri che stanno fuori del recinto, è come se mi dicesse: va fuori del recinto... dove non si conosce affatto o si ignora la parabola del vero pastore. La parabola si comprende dentro il recinto...
Armando Zecchin
Armando Zecchin
Leggo da Consuelo Vélez:
"Può risultare ambiguo chiedere alla Chiesa di percorrere i sentieri della postmodernità nel momento in cui essa ha relativizzato le grandi narrazioni e avviato ricerche spirituali che poco hanno a che fare con l’esperienza ecclesiale vigente. Tuttavia, aspetti come il recupero della soggettività, l’armonia con il cosmo, la valorizzazione del quotidiano, del corpo, dei sentimenti, della sessualità, la ricerca di spiritualità e di crescita interiore rappresentano delle strade che l’esperienza ecclesiale può e deve percorrere se vuole essere riconosciuta dagli uomini e dalle donne di oggi. Non c’è più posto per una religione che non sia accompagnata da un’antropologia in grado di valorizzare l’intero essere umano tenendo conto delle sue diverse dimensioni e accogliendole positivamente senza giudicarle a priori, ma ritenendole necessarie al fine di costituire l’esperienza religiosa in modo molto più integrale e integrante”.
AGGIUNGO:
Valorizzare l’intero essere umano è un compito colossale, e spezzoni interessanti di chiesa lo fanno. Tutti però, compresi questi, debbono tener conto del fatto che un’antropologia integrale deve aiutare a valorizzare, e non ad eliminare, il senso della trascendenza. Trascendenza significa capacità di usare il ‘terzo occhio’ per guardare, in noi e fuori di noi, alla Realtà più profonda di quella tangibile. Ausilia Riggi
"..Trascendenza significa capacità di usare il ‘terzo occhio’ per guardare, in noi e fuori di noi, alla Realtà più profonda di quella tangibile."
Se la religione non fa questo lavoro, non serve a nulla.
Antonio
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