venerdì 19 aprile 2013

IV domenica di Pasqua: IL BUON PASTORE



21 aprile 2013 IV Domenica di Pasqua Anno C
Atti 13, 14.43-52; Apocalisse 7, 9.14b-17
Giovanni 10, 27-30
In quel tempo, Gesù disse: 27 “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28 Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29 Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30 Io e il Padre siamo una cosa sola".
L’IMMAGINE DEl BUON PASTORE
a) LA LITURGIA DE GIORNO
Nella quarta domenica di Pasqua la liturgia offre un piccolo brano, tolto dal discorso nel quale Gesù si presenta come il Buon Pastore. Nello stesso tempo si celebra la Chiamata, la Vocazione a farsi guida delle comunità. Tale associazione fa dell'immagine del Buon Pastore il modello della sequela.
Il segreto per rispondere adeguatamente alla chiamata consiste nel vivere la stessa relazione di Gesù col Padre, attraverso la conoscenza divina, sostanziata di relazione sponsale, di reciprocità, in cui non c’è un prima e un di più tra Maestri e seguaci. Bene sintetizza tale idea teologica di parità Gv 10,27: Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le amo (conosco) ed esse mi seguono”
b) ORIGINE DELL’IMMAGINE del Buon Pastore
L'immagine deI BUON PASTORE era frequente nel repertorio mitologico artistico romano quale auspicio di pace per i defunti. L’arte paleocristiana vi si ispira e nel medesimo tempo si radica nel mondo ebraico che rifiuta l’immagine.
Il popolo ebraico, nomadico, e quindi legato alla vita pastorale spesso in tensione con l’aspirazione alla vita sedentaria, vive tale contrasto, come risulta dalla scena di Abele, pastore, e Caino, agricoltore.
Il nomadismo resta una componente fondamentale dell’esperienza ebraica anche sulla base della vicenda esodica, del vagare per quaranta anni nelle steppe del Sinai.
Nelle prime comunità cristiane l’immagine del Buon Pastore assume tonalità improntate all’ambiente romano fortemente figurativo, passando attraverso il simbolismo ellenistico. Basti ricordare la pittura dei cubicoli, nei sarcofagi e anche nelle epigrafi, segno dell’anima portata nella pace, da Cristo Buon Pastore, o Bel Pastore (secondo l’originale greco) che va in cerca della pecorella smarrita, usata da Gesù stesso nella parabola (Lc.15,3-7; Gv.10,11-16).
E' di rilievo la caratteristica dell’anti-tipo del Buon Pastore, il MERCENARIO, che nell’Antica Alleanza incarnava il lavoratore salariato assunto a giornata con una mercede pattuita volta per volta e versata a lui prima del tramonto del sole, al termine della sua prestazione (Levitico 19,13). Lo stesso concetto si ritroverà nella Nuova Alleanza, come in Matteo 20,1-16 nella parabola dei lavoratori mandati nella vigna a ore diverse.
c) SIGNIFICATO TEOLOGICO DI TALE IMMAGINE
Sia nell’Antica, sia nella Nuova Alleanza, caratteristica del buon pastore è quella di non mettersi in salvo, sfamarsi o dissetarsi indipendentemente dal suo gregge, a differenza dei pastori – i capi politici e religiosi – che non curano gli interessi di coloro di cui si dichiarano guide. Questi ultimi, come leggiamo in Ezechiele 34, sono preoccupati di “nutrirsi di latte, di rivestirsi di lana, di ammazzare le pecore più grasse, ignorando le pecore deboli, non curando le inferme, non fasciando le ferite, non riportando le disperse”.
d) L’ANTEFATTO DEL TESTO DI GIOVANNI
Nella PRIMA LETTURA è evidente il carattere teologico della prima predicazione pastorale. Paolo e Barnaba, forti della propria testimonianza, annunciano la Parola del Signore a molti e li conducono al battesimo. Sono consapevoli che le opere sono la conseguenza, non di uno sforzo personale, ma dell’adesione totale all’essere relazionale di Dio: Gv 10,30 “Io e il Padre siamo uno”. Detto in altre parole, la cosiddetta pastorale deve porre al centro, sull'esempio di Gesù, la dimensione relazionale piuttosto che quella funzionale o organizzativa.
Nella SECONDA LETTURA gli eletti sono un numero incalcolabile. La chiesa nascente vede abbattuto in Gesù ogni confine: Io, Giovanni, vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua.
GIOVANNI, 10,27-30
Nei tre versetti del vangelo di oggi l’estensore evangelico si dimostra imbevuto dell’esperienza concreta e teologica della chiesa primitiva che riprende la figura del mercenario per alludere ai sacerdoti, agli scribi, ai politici del tempo o agli zeloti, i ribelli anti-romani: tutti pronti a raggiungere i propri scopi e a tutelare i propri interessi, non certo a donare la vita per il gregge. Come nell’Antica Scrittura l’assillo preminente dei profeti era la formazione di buoni pastori per il popolo, così il Gesù di cui parla Giovanni si presenta come prototipo dell’intesa relazionale tra Dio e i suoi eletti: Gesù parla e le pecore lo ascoltano e seguono; dona loro la vita eterna ed esse non andranno mai perdute perché nessuno le potrà mai strappare dalla sua mano.
Giovanni insiste sull'idea che Gesù è il solo Pastore, il modello di tutti i pastori e che tutti gli altri sono ladri e briganti. Gli attacchi possono riguardare anzitutto i capi della sinagoga, ma inevitabilmente ricadono sui capi delle prime chiese: è evidente la venatura polemica che il brano conserva e che ne impedisce ogni interpretazione sentimentale e bucolica.
OGGI 
Come si esprimono qualificati esegeti, faremmo un torto alla Bibbia, ed in particolare al testo di oggi, se accomodassimo affrettatamente l'immagine del pastore buono alla figura dei preti e dei consacrati. C'è una rivendicazione d'assolutezza da parte di Dio, che si fa invito a non usare il nome di Dio a sproposito. Se l'essere pastori nella chiesa attinge la sua giusta dimensione alla relazione personale con il Signore, nutrita di fede e di preghiera, essa coinvolge parimenti le 'pecore',  che entrano nello stesso circuito di conoscenza e amore.
Nei vv. 28-29 vi è come un gioco delle mani per cui la mano del pastore umano e la mano del pastore divino si identificano: 29 "Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30 Io e il Padre siamo uno". Nessuno può esercitare degnamente un servizio senza esserne stato per prima destinatario; Il Pastore è anche agnello, come Gesù. Pastore perché ha saputo immedesimarsi nella condizione di nullità e d’insignificanza delle pecore, perché ha voluto egli stesso fare parte del gregge e per di più perché non ha ricusato di essere, fra tutte le pecore, la più indifesa e abbandonata, cioè l'agnello condotto al macello.
Afferma il libro dell'Apocalisse: "Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti con il sangue dell'Agnello”.
Tale è l'identità della Chiesa: una realtà di comunione, estesa a tutta l'umanità. 

1 commento:

Fiordaliso ha detto...

vorrei esprimere la mia emozione nel riscontrare nelle note esegetiche di Ausilia il mio stesso sentire, dato che io sono come lei una outsider. Fiordaliso