DOMENICA XIII T.O. anno A
In quel tempo, Gesù disse ai
suoi apostoli: 37Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me;
chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38chi non
prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 39Chi
avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria
vita per causa mia, la troverà. 40Chi accoglie voi accoglie me, e
chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un
profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un
giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà
dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli
perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Commento
IL BRANO di
MATTEO
In questa seconda
parte del discorso missionario (la prima parte l’abbiamo letto la scorsa
domenica), Matteo mette a fuoco la formazione morale e spirituale dei discepoli
che, dopo la morte di Gesù, erano rimasti
dubbiosi e spaventati, ma volevano ricostruire, sia il proprio essere e comportarsi
da discepoli, sia la piccola comunità in formazione. Ma, ahimè, quanto sono
paurosamente provocatori i pochi versetti che leggiamo oggi! Sono
impressionanti per la durezza dei termini, per la [non vorremmo usare questo
termine] pretesa di Gesù di
convogliare su di sé le energie vitali e affettive di ogni discepolo: Egli non
accetta compromessi né un amore a metà. La frequenza martellante (sette volte),
quasi ossessiva, del pronome in prima persona me, sembra voglia comunicare, anche sul piano linguistico,
la Sua esigenza di costituire il tutto
nella vita dei suoi discepoli. Agostino di Ippona commenta: Egli solo ti basta e nient'altro senza di
Lui ti può bastare.
Si tratta di vivere
l'appartenenza a Lui, radicata nel Battesimo, nel modo raccomandato da Paolo
nella seconda lettura proposta dalla liturgia: Siamo morti con Cristo...sepolti insieme con Lui nella morte. L'immersione
nell'acqua (del battesimo) simboleggia il morire e essere sepolti con Cristo a
tutta la realtà del peccato, da cui si è liberati radicalmente.
Ma, premettiamolo subito, in tutto il vangelo Gesù non aveva
mai inteso favorire alcun fondamentalismo religioso; basti ricordare l’evento
nell’orto del Getsemani, quando Pietro estrae fisicamente una spada per
difendere Gesù e Lui si oppone decisamente.
La proposta di Gesù,
presente solo nei tre sinottici e mai in Giovanni, appare in tutti i vangeli
soltanto cinque volte, e viene espressa sempre per sciogliere l’equivoco di una
sequela di Gesù all’insegna del trionfo.
Eppure una domanda sorge,
però, spontanea alla lettura della pericope: è mai possibile che il Gesù mite e
umile di cuore che invitava a porgere l’altra guancia, all’amore come legge
fondamentale e primo Comandamento, esorti – per essere suoi discepoli – a
odiare padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e persino noi stessi?
La spiegazione di tanta durezza nelle affermazioni
sconcertanti attribuite a Gesù è da cercare nel sottofondo linguistico che talvolta
affiora nel testo greco dei Vangeli. La lingua usata nella stesura
è quella dominante nell’Impero Roman; ma in essa compare in filigrana la
matrice della lingua originaria degli autori e, in particolare per le frasi di
Gesù, l’originale aramaico con cui egli si esprimeva. Ebbene, in
ebraico e aramaico non si ha il comparativo, ma si usano solo le forme
assolute. Così, per dire amare meno si adotta l’estremo opposto
all’amare, cioè l’odiare.
Quel che Gesù chiede ai Suoi è un impegno forte, il distacco
senza il quale non è possibile perseguire un orientamento radicale verso di Lui
e il regno di Dio. Per esprimere questa esigenza, Egli non esita a ricorrere al
paradosso. E i discepoli impareranno che in quelle espressioni intense di stile
orientale, c’è anche una verità che si attua con la testimonianza del martirio.
E’ bene ricordare che questa corsia preferenziale per Dio era prevista anche nella
tradizione rabbinica, la quale raccomandava di dare precedenza al rabbino
sul padre.
Sembra che il verbo usato da Matteo (bale‹n=
balein=gettare) indichi che Gesù non porge il suo Vangelo ‘con i guanti’,
che, piuttosto, lo getti senza tanti
convenevoli, come un sasso nello stagno o - come scrive Marco (4,26) – nello
stesso modo in cui si getta a terra il seme.
Un’esegesi più approfondita chiarisce
con efficacia il significato di questo passo evangelico, tra i meno compresi
nella storia del Cristianesimo.
L’affermazione radicale di seguire senza mezzi termini Gesù
che porta la croce, nella storia del cristianesimo ha finito per alimentare una
spiritualità doloristica che nulla a che vedere con la chiamata alla gioia che
contraddistingue la buona notizia, e
che svilisce la portata delle parole di Cristo, riducendole a un banale
richiamo a sopportare con rassegnazione le sventure della vita.
Il prendere la propria croce e perdere la propria vita, nell’autentica
prospettiva di Cristo, hanno tutt’altro significato. Quello di smettere di considerare se
stessi come misura delle cose e come artefici della propria vita; di mettersi
completamente nelle mani di Dio e accettare pienamente la logica dell’amore, anche quando la fedeltà a questo amore può –
proprio come nel caso di Gesù – costare la vita.
Dunque, è da ribadirlo, prendere la Sua croce non significa
accettare le tribolazioni accidentali della vita, ma prendere su di noi il Suo
progetto di vita, calandolo nelle circostanze storiche, pubbliche e private.
Significa non preoccuparsi di se stessi, non cercare se stessi, non mettere mai
in bilancio ciò che torna utile a me e al mio gruppo di appartenenza. Siccome
esistono delle predilezioni che costituiscono una necessità nella propria vita,
prendere la croce di Cristo significa collocarle fuori dal quadro delle
predilezioni codificate; prediligere la compagnia di quelli che contano meno,
stare insieme a coloro che non hanno capacità di dare ampie consolazioni, che non
ci rassomigliano.
Sta in questo atteggiamento la vera libertà umana.
Una riflessione ancora più
approfondita porta a confrontare l’esigenza evangelica e quella della più
raffinata concezione laica, di impronta psicologica. Commenta bene J.Ratzinger:
L’autentico seguace di Gesù ripudia la
mentalità dell’autosufficienza e accetta che la propria esistenza sia plasmata
da Dio, in una sorta di creazione continua che dalla nascita prosegue sino alla
morte. Il che rappresenta la quintessenza di quello che la Bibbia
chiama peccato originale: da non intendere come evento storicamente avvenuto,
ma come tentazione costitutiva dell’animo umano, sempre attratto dalla
prospettiva di fare a meno di Dio e di
agire, se ritenuto necessario, anche contro Dio.
Qui si evidenzia l’enorme distanza che separa lo spirito
evangelico dal pensiero laico, il quale, proprio
dell’autorealizzazione voluta e attuata con le proprie forze fa uno dei
capisaldi più nobili della vita umana. E qui il dialogo fra le due istanze – la
cristiana e la laica - si fa difficile,
se non impossibile, e non resta che il reciproco rispetto, nella diversità
delle prospettive.
ALTRO PASSAGGIO: Gesù
porta la spada della separazione fra il bene e il male, fra coloro che
accolgono il suo messaggio e quelli che lo rigettano; ma porta anche la
spada della determinazione. Rispondere alla chiamata di Cristo richiede un
taglio, molto spesso doloroso, con l'ambiente, con la stessa famiglia.
La spada-divisione
è implicita nelle esigenze della presenza di Gesù; lo stesso messaggio porta
alla divisione: esige che nessuno e nulla sia al di sopra di Lui nella scala
dei valori. Infatti quel che
è da temere è un cristianesimo tanto
inoffensivo da non creare più difficoltà a nessuno, oppure un cristianesimo che
non feconda più nulla, perché è stato così snervato da non essere più capace di
stupire, di creare poesia o anche di creare scandalo, o almeno provocazione e
sfida nei riguardi del mondo.
Infine Gesù preannuncia ai discepoli in
missione che potranno contare anche sull’accoglienza da parte di uomini e donne
che vedranno in loro dei profeti, dei giusti, dei piccoli. Costoro avranno una
ricompensa grazie al loro discernimento e alla loro capacità di accoglienza:
nel giorno del giudizio, certamente, ma anche già qui e ora, cominciando a
sperimentare il centuplo sulla terra.
E per noi, spaventati dall'impegno di dare la vita e
di avere una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase
dolcissima: Chi avrà dato da bere anche un solo
bicchiere d’acqua fresca… non perderà la sua ricompensa.
La croce e un bicchiere d'acqua!, il dare tutta la
vita e il dare quasi niente! Sono i due estremi di uno stesso movimento. Un
gesto che chiunque può compiere; però un gesto vivo, significato da un
aggettivo dal sapore evangelico: fresca.
L’acqua deve essere fresca: vale a dire procurata con cura, l'acqua migliore,
quasi un'acqua affettuosa, con dentro l'eco del cuore. Stupenda pedagogia di
Cristo! Non c'è nulla di troppo piccolo per il Vangelo, perché nulla vi è di
autenticamente umano che non trovi eco in Dio. L’essere umano guarda le
apparenze, Dio guarda il cuore.
Un’ultima prospettiva per il discepolo in Matteo: Gesù lo carica di un compito altissimo:
fare discepoli tutti i popoli. Un compito
dall’orizzonte infinito… Il discepolo deve, così, diventare maestro, che ripete
il modello del maestro, l’inviato che diventa inviante.
La motivazione di
questa visione non proviene da un ulteriore comando esterno al discepolo, ma da
profondità viscerali: Quando qualcuno si convince della
ricchezza della Parola di Dio, non può tenerla per se stesso, perché essa
trabocca,
esonda, vuol raggiungere gli altri… e non per convertirli al proprio credo ma
per sollecitare incontri fecondi, nonostante le culture diversissime.
Il cristianesimo sarà universale se esso, seduto accanto ad
altre religioni di altre culture, imparerà da tutti, uscendo fuori (anzitutto mentalmente)
da zone umane chiuse e protette.
Riflessione
personale
Sì, il
vangelo va letto attraverso l’esegesi di Autori-studiosi, ma – è mia
convinzione - non si può restare aggrappati nemmeno alla più profonda
interpretazione. Infatti siamo di fronte, non ad una dottrina, bensì alla
Parola di Dio che traspare dietro le parole e si rivela alla mente ed al cuore attraverso la preghiera,
quale vero alimento della vita spirituale e rivelazione non fatta di parole.
Gli
esegeti migliori sono quelli permeati interiormente della Parola di Dio, che
sanno parlare senza nessuna delle parole inutili che sanno di ammaestramento.
Essi, giunti attraverso tanto scavo al non detto, lasciano il lettore dentro lo
scavo stesso, perché ora spetta a lui, incontrare la Verità.
==
Esegeti
consultati: A. Grün, R. Brown, J. Ratzinger, G. Ravasi,
J. Beutler, J. Stott, J .Dupont, E. Bianchi, L. Manicardi, M.J. Castillo,
ecc.
Consigli al
femminile:
M.Cerini, Dio Amore nell’esperienza e nel pensiero di
Chiara Lubich.
Gabriella Zarri, Finzione e santità,
Rosenberg& Sellier, Torino 1991
Elena Lowenthal,
Eva e le altre
L’Autrice si lascia impregnare dalla Parola di Dio con lo
sguardo del cuore, nella zona di confine tra il divino e l’umano. E lo fa con naturalezza.
Una citazione dalla pagina 188: Nella Bibbia, il silenzio è la musica di una teofania minore [quale è
quella femminile]. Dio parla a Mosè dentro un roveto che ardendo non può fare a
meno di crepitare fastidiosamente, rimbomba nel tuono di un mare che s’apre
conducendo i figli d’Israele fuori dalla schiavitù dell’Egitto, con voce
stentorea rivolge ad Abramo i suoi mille, impossibili comandi. Urla per bocca
di tanti profeti attanagliati dalla disperazione. Questa rivelazione che tace
sottile è forse la cosa più sincera fra tutte quelle che Dio ha elargito
all’uomo attraverso la Bibbia”.
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