I
DOMENICA DI AVVENTO anno A
Mt24,37-44
In quel tempo, Gesù disse ai
suoi discepoli: «37Come furono i
giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. 38Infatti,
come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano
moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, 39e
non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà
anche la venuta del Figlio dell’uomo. 40Allora due uomini saranno
nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. 41Due donne
macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. in quale
giorno il Signore vostro verrà. 43Cercate di capire questo: se il
padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e
non si lascerebbe scassinare la casa. 44Perciò anche voi tenetevi
pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Commento
Preambolo
Al contrario dell’anno
civile che volge al suo termine, inizia oggi il primo anno del ciclo liturgico
triennale, detto anno A. In questo ci accompagna il Vangelo di Matteo.
La parola che si
staglia su tutte, nella pericope di questa prima domenica di Avvento, è: Vegliate perché non sapete in quale giorno il Signore
vostro verrà.
Sarebbe stato per noi
motivo di terribile angoscia conoscere in anticipo l'ora esatta della fine ed
assistere al suo lento e inesorabile approssimarsi. È quello che più spaventa
di certe malattie. Ma l'incertezza dovrebbe spingerci a vivere da vigilanti.
Eraclito ha espresso
questa fondamentale esperienza con una frase rimasta celebre: panta rei, cioè tutto scorre. Nel cristianesimo, come nelle altre colonne portanti
della storia quali le grandi religioni, c’è un grande Indicatore puntato all’interno
del cuore umano: in esso il tempo può fermare la sua corsa e far maturare
gradualmente la capacità di filtrare ciò che è autentico. Lo può o non lo può.
Lo può nella fede, cioè nel rapporto fiducioso in Dio, non lo può nella
solitudine del ripiegamento dell’io su se stesso. L’imperativo del Vegliate di Gesù insegna ad uscire da questa
solitudine esistenziale (dietro la quale si nascondono tante ideologie).
Il vangelo di Matteo
Dal momento che Matteo
quest’anno fa da mentore nell’approccio alla parola di Dio, facciamone una breve
presentazione.
Anzitutto egli, come
gli altri evangelisti, ha alle spalle qualcosa di scritto, fissato su una
pergamena o su un papiro. Si tratta dei protovangeli, i quali, a loro
volta, derivano da una predicazione orale, individuata come il kerigma.
Ma da tanti elementi esegetici risulta
che Marco ha scritto prima di lui, e Matteo lo segue più da vicino,
naturalmente scrivendo il suo vangelo con altra sensibilità.
Matteo è stato l’organizzatore
di queste fonti con un suo progetto, che ha un elemento simbolico: il monte. Su
questo egli pone, all’inizio ed alla fine del suo vangelo, un Cristo solenne, in
cui si manifesta Dio (teofania); un Cristo
in cui raggiunge la sua pienezza la Parola dell’Antico testamento. Lo vediamo
anche nella pericope di oggi, in cui in
termini chiari Matteo si riferisce ai
giorni di Noè.
[Pasolini nel suo film interpreta un Cristo secondo
Matteo, a differenza di Zeffirelli, che ritrae il volto umano e dolce del
Cristo consegnatoci da Luca].
Commento al testo odierno
Il brano odierno fa parte del discorso escatologico, che si trova
nei tre sinottici. Matteo segue con qualche omissione e aggiunta il testo di
Marco.
Bisogna tener presente
che alla fine del primo secolo, le comunità vivevano nell’attesa della venuta
immediata di Gesù in veste di figlio dell’uomo [L’espressione spesso indica
semplicemente l'uomo, che di fatto è un figlio dell'umanità. In Daniele, il
profeta omonimo (l'ultimo dell'A.T.) vede comparire sulle nubi del cielo uno
simile ad un figlio di uomo,
simbolo del popolo di Israele, perseguitato in quel momento storico (3° sec.a.C.).
C'è poi tutta una letteratura, sia pure minoritaria, del tardo giudaismo che identifica
il personaggio a cui si riferisce Daniele con il misterioso Servo di Jahvè.
Sostituendo volutamente al termine Cristo quello di Figlio dell'uomo, Gesù intende
spostare l'attenzione di chi lo ascolta dall'immagine di un Messia glorioso a
quella di un Messia sofferente].
Il paragone del diluvio è utilizzato da Gesù, non in quanto
castigo per la corruzione prevalente al tempo di Noè, ma soltanto per il suo
carattere improvviso e inaspettato. Gli uomini di allora, inconsapevoli della
tragica sorte che li attendeva, si preoccupavano solo di ciò che riguardava la
loro sopravvivenza in tempi normali: mangiavano, bevevano, si sposavano.
Improvvisamente però, quando Noè entrò nell’arca, furono spazzati via dal
diluvio. Invece di prepararsi i mezzi di salvataggio come Noè, essi erano
assorbiti dai loro affari quotidiani. Si suppone che anche loro, come Noè,
avrebbero potuto sapere quello che li attendeva, se avessero considerato con
altri occhi le vicende del mondo.
Sia all’inizio che alla fine di questa breve rievocazione viene
indicato il secondo termine di paragone: così sarà la parusia del Figlio dell’uomo.
Il clima culturale di
quei tempi sembra simile a quello di oggi, in cui molti si chiedono se le
vicende più terribili che accadono siano segno dell’avvicinarsi della fine del
mondo. E parimenti si chiedono cosa fare per non essere sorpresi.
A tal fine Matteo tratteggia il comportamento diverso di due uomini e,
in separata sede, di due donne, rappresentanti della passività o della solerzia.
Da qui il richiamo di Gesù alla
vigilanza: il destino sarà diverso a seconda delle opere da loro praticate.
Alcuni saranno presi, cioè, riceveranno la salvezza, ed altri non la riceveranno:
noi non possiamo interferire nel tempo di Dio, ma dobbiamo essere preparati per
il momento in cui la sua ora si farà presente nel nostro tempo: può essere
oggi, può essere da qui a mille anni.
La prima e l’ultima strofa del Salterio di
questa domenica esprime, non un presagio terrificante della fine, bensì quella
sicurezza, pace e gioia, che si prova nel sentirsi protetti da Dio. Da ciò
il bisogno di farsi messaggeri di pace agli
altri:
Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!
…..
Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: «Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.
io dirò: «Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.
Una riflessione sul Vegliate
Questa parola contiene in sé tutta l’intensità di un
imperativo, perché per ora siamo nella notte.
Per credere nella notte il Signore ci ha dato l’unica cosa
necessaria a chi sta nel buio, una lampada. Disponiamo solo della sua limitata
fiamma per vedere solo quanto basta per muovere pochi passi.
La nostra fede, come la Parola che la genera, non possiede
la chiarezza su tutto, non dà certezze incrollabili.
Siamo credenti nella notte che cercano la verità con la
stessa fatica con la quale nel buio si cerca il cammino: a tentoni, spesso
sbagliando e andando fuori strada.
Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere i fatti di
ogni giorno per rendersi conto che tutto riconduce all’evento che attende
tutti: l’incontro con il Signore.
Chiediamoci se
e come attendiamo il Futuro che
oltrepasserà le nostre attese ‘piccine’.
Si tratta di abbandonare il trantran, le abitudini, le usanze, l’ipocrisia che
si annida in tante parole e gesti. Si tratta di avere il coraggio di staccarsi
dalla maggioranza dei cristiani che, come dice Ignazio Silone, dicono di attendere il Signore, e lo aspettano
come si aspetta il tram!
Accorgiamoci
dell’irrilevanza di ogni cosa!, o meglio: cerchiamo di essere tutto (interi) in
ogni cosa!
E…. non riduciamo il
Natale cristiano ad una festa pagana…..
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