DOMENICA XXVII T:O. anno C
Commento
Questa volta ad interrogare Gesù sono gli apostoli. Chiedendogli
di aumentare la loro fede, essi riconoscono la loro fragilità di credenti e dimostrano
di non aver chiaro il concetto di fede.
L’aumento della fede potrebbe riguardare un concetto di fede
di ordine intellettuale da tradurre in una dottrina. Ma Gesù pone la fede su un
piano che non è quantitativo, bensì qualitativo. Essa richiede un atto di
fiducia, di affidamento nel Signore. Si tratta di offrire a Dio le stesse
debolezze umane e perfino la propria incredulità, in modo da lasciare che sia
Lui a vincere dubbi e perplessità.
La risposta di Gesù corregge la domanda. Egli, come è solito
fare, usa, da sperimentato didatta, una metafora: quella del granello di
senape, tradizionalmente indicata quale immagine del Regno di Dio. E alla
metafora aggiunge un paradosso: per essere grande, la fede deve restare piccola.
Una breve riflessione sul perché.
La fede non è fondata sul merito. Di questo ci si può
inorgoglire; invece l’efficacia è assicurata quando non si conta su se stessi,
bensì nell’aiuto di Dio di cui ci si fida. È vero, la nostra fede è
sempre a breve respiro, ma basta avere quel piccolo seme dell’adesione alla
potenza dell’amore di Dio, e la grazia di essere vero discepolo di Cristo si
realizza.
Credere significa seguire Gesù, camminare dietro di lui. Se
vacilliamo, sappiamo che lui è pronto a soccorrerci, a farci rialzare per stare
sempre là dove è lui. Però dobbiamo aver cura di questo piccolo seme, ed esso, seminato
dentro di noi, crescerà senz’altro.
= La risposta di Gesù agli apostoli prosegue con
una parabola che li riguarda da vicino, in quanto essi sono degli “inviati”: il
termine infatti traduce il nome greco apostoloi.
Ma il discorso è estensibile ad ogni vero cristiano.
Riflettiamo sul senso profondo del termine servo che viene
adoperato, e che sarebbe difficile accettare nella modernità. Infatti, tranne per
coloro i quali frequentano gruppi di formazione e/o di appartenenza-forte di
stampo cristiano, il termine suona alquanto lontano dal comune modo di
intendere chi pratica la fede. Possiamo immaginare quale tipo di ragionamento
può insinuarsi: dobbiamo essere davvero come quel servo, il quale va ad arare
tutto il giorno e, quando torna, deve darsi da fare per servire il padrone,
aspettare che lui abbia finito di mangiare, e solo dopo sedersi a tavola anche
lui?
Davvero in alcuni punti il vangelo che leggiamo la domenica
può lasciare sconcertati, tanto certe immagini sono… fuori dell’ordinario.
Anche l’immagine conclusiva del servo inutile -Siamo
servi inutili- sembra il perfetto contrario di quanto lo stesso Luca afferma al cap.12,37: “Beati quei servi che il padrone al suo
ritorno troverà ancora svegli. In verità vi dico: si cingerà le sue vesti, li
farà mettere a tavola e passerà a servirli”.
Allora dobbiamo studiare il vangelo nella sua unità per
capire. Il testo vuol dire: l’inviato
non deve pretendere riconoscimenti di sorta per quello che fa. Non che il suo
spendersi sia inutile, ma la coscienza che lo anima deve essere liberante e
liberata; cioè egli deve compiere tutto senza far risalire alcunché a se
stesso, rinviando tutto al Signore. Ciò che
spetta al credente è ascoltare gli insegnamenti di Gesù e restare nel proprio
posto di discepoli. Anche l’agire straordinario di Gesù, come l’operare
guarigioni era disinteressato; richiedeva l’atto di fede in Dio del beneficato;
la guarigione non era solo opera sua, diveniva efficace attraverso la fede del
guarito.
Tutti siamo nella condizione
di essere guariti (dalla colpa, dall’indolenza, dalle miserie spirituali e
corporali) e cerchiamo chi possa guarirci. Ma spetta sempre a noi completare
l’azione di Dio con il piccolo seme della fede, intesa come fiducioso abbandono
in Lui.
= Abbiamo detto
più volte che i vangeli non sono una cronaca esatta della vita di Gesù ma una
teologia, un'applicazione che gli evangelisti hanno fatto del messaggio ascoltato
da testimoni risalenti a Gesù.
La parabola si riferisce ad una certa mentalità del tempo.
Perciò il messaggio spesso non è immediatamente comprensibile. In tempi più
vicini a Gesù era facile identificare Dio nel padrone e il credente nel servo,
e questo qualche volta accampava pretese presso il suo padrone. Da ciò
l’esempio trasferito nella parabola. Talvolta questi nuovi credenti,
identificandosi nel servo, ritenevano di potersi aspettare dei benefici dal
seguire Gesù. Come oggi anche noi: se abbiamo fatto le opere buone e siamo
stati attenti nell’osservanza dei comandamenti, possiamo ritenere di avere
acquistato meriti, diritti davanti a Dio. Gesù vuole smontare questo tipo di
credere. Il nostro piccolo seme della fiducia piena in Dio è il piccolo
contributo del nostro impegno. A noi non dovrebbe interessare nemmeno la
promessa del paradiso. Interessa ricambiare amore con amore.
Una conclusione
nostra? Tiriamola ciascuno di noi, non risparmiando quel po’ di fatica che si
richiede nel leggere con molta attenzione e nel comprendere il testo nelle
sue difficoltà di attualizzazione; senza rimpiangere la brava omelia che
raccontava tutto come un racconto facile da capire e, dopo tutto, facile da
praticare.
= Una mia breve
considerazione.
Essere cristiani è impegnativo. Ma mi chiedo che senso
avrebbe per me la vita senza la fede. Trovo indispensabile avere un punto fermo
a cui appoggiarmi in ogni situazione. So che ci vuole un continuo (non
assillante) esercizio per riconoscere in ogni evento (nessuno escluso) la mano
di Dio. Cercandola nella fiducia costante di trovarla, la trovo sempre protesa
anch’essa verso la mia. E’ bello che le due mani si stringano, senza illusioni
di sorta.
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